FOLCO ORLANDINI: CASA e BOTTEGA.
a cura di Annamaria Cassani
“Le belle idee non possono passare inosservate”.
Architetto, toscano, classe 1972, dal 2009 dirige col padre Paolo lo studio Orlandini Design, fondato negli anni
’60, che si occupa di industrial design per importanti aziende di settore: Knoll, Lamm, Las, Minotti Italia, Martinelli Luce, Segis, Redi, Snaidero…
Nel web viene descritto come “amante dell’uomo, delle sue infinite potenzialità e della vita in tutte le forme ed espressioni […] stimolato dal pulsante battito del cuore metropolitano, da cui nasce la sua sfrenata passione per le arti visive”.
Incontriamo online Folco Orlandini: abbiamo sul tavolo diversi argomenti da approfondire, qualcuno anche un po’ scomodo.
Annamaria Cassani
Folco, la storia di Orlandini Design inizia nel 1968 quando tuo papà Paolo, dopo dieci anni di collaborazione con lo studio di Marco Zanuso Sr. e Richard Sapper, dà avvio alla sua carriera autonoma con Roberto Lucci. Possiamo dire, quindi, che il product design abbia sempre fatto parte della tua vita. Hai dei ricordi particolari della tua infanzia legati al lavoro di tuo padre che, perseverante e tenace, se non erro collabora ancora con voi?
Folco Orlandini
Ricordo che nei primi anni scolastici passavo i pomeriggi nello studio di mio papà che si trovava al piano terra della nostra abitazione. Mia mamma lavorava fuori casa ed io impegnavo il mio tempo a disegnare e a realizzare modelli in legno di piccoli robot che ho conservato sino ad oggi, racchiusi in scatole.
È stato naturale intraprendere, dopo la laurea in architettura, la professione di designer che, all’inizio, non ha rappresentato per me un vero e proprio lavoro ma un normale e, ammetto, anche divertente modo di vivere.
Mio padre, tuttavia, pensava che io potessi sottovalutare l’impegno e la dedizione che l’attività richiedeva e ha cercato di dissuadermi dall’intraprenderla. Dopo qualche anno di esperienza fatta presso altri Studi sono tornato nella sede familiare e, passo dopo passo, è stato fugato il dubbio che io intendessi svolgere questo lavoro solo per “comodità”: col tempo questa professione è diventata la mia vita.
Proprio in questo periodo sto ristrutturando lo studio e l’abitazione posta al piano superiore, all’insegna del binomio “casa e bottega” nel quale mi ci riconosco appieno.
A.C.
Sul sito web di Orlandini Design, alla pagina “Chi siamo” appare una foto in bianco e nero – penso volutamente “posata” – che trasmette con estrema franchezza il vostro modus operandi di cui ho poi trovato conferma in uno dei vostri profili: un approccio progettuale basato sulla sperimentazione diretta e concreta piuttosto che sull’astrazione digitale. Nel descrivere lo studio, poi, sul vostro sito parlate di “bottega artigiana” ed evidenziate quanto vi sentiate operativamente differenti dai colleghi. Approfondiamo?
F.O.
Potrà sembrare strano ma nella foto cui accenni non siamo “in posa”. Abbiamo eseguito molti scatti liberi e poi semplicemente scelto quello che ci piaceva di più: concordo nell’affermare che il messaggio che trasmette è importantissimo.
Il concetto di bottega artigiana nasce innanzitutto dalla concreta (conformazione dello studio, rimasto da sempre attiguo all’abitazione familiare: non c’è mai stato il desiderio naif di un “ritorno ai vecchi tempi”.
Per quanto riguarda l’astrazione digitale ho constatato che, pur fornendo per ciascun progetto tutti gli elaborati realizzati con sofisticati software (ambientazioni, viste 3D, ecc.), presentare al Cliente il modello “reale” del prodotto, realizzato in studio, innesca un’altrettanta “reale”, spontanea e positiva emozione: vi garantisco che questo fa la differenza! Non si tratta di una “voglia” romantica, sia ben chiaro, ma di una strategia.
Ammetto che all’inizio della mia carriera faticassi a digerire l’atmosfera di artigianalità che connotava il nostro studio
perché lo percepivo sempre un po’ sporco e disordinato: ammiravo gli studi di altri architetti e designer che apparivano così belli e composti e sviluppavo un senso di frustrazione. Col tempo mi sono accorto che questa, consentitemi il termine, “straccioneria” altro non era che l’espressione di un fortissimo legame con le tre dimensioni fisiche, un irrinunciabile valore aggiunto che non tutti possedevano: il laboratorio creativo (presente tuttora) con il tavolo da lavoro dove si taglia e si sagoma il cartone, il legno, la gomma, ci permette di passare dai prototipi più grossolani fino a quelli più sofisticati.
È chiaro che questo approccio si traduce in un vantaggio anche per il Cliente perché consente di verificare, per gli oggetti proposti, eventuali criticità che sulla carta non sono riscontrabili.
La verifica tridimensionale/materica del nostro lavoro è importantissima: non eseguirla significa fermarsi solo alla prima parte del processo progettuale.
A.C.
Collegandomi alla domanda precedente ti chiedo di commentare quanto compare sulla biografia dello studio che appare sul portale Archiproducts: “Le idee sono la nostra preziosa materia prima, ma devono essere trasformate in oggetti tangibili affinché il nostro lavoro possa essere considerato finito”. Quello delle idee è un tema cui sono legatissima, per cui ti chiedo: che valore date ad un’idea bellissima, innovativa, ecc. ma che per vari motivi non ha visto la sua realizzazione concreta?
F.O.
Io mi occupo di industrial design, un settore in cui fondamentale è il fatto che le idee si concretizzino in prodotti, in un processo che segue strade diverse rispetto, ad esempio, all’autoproduzione piuttosto che all’edizione limitata o al pezzo unico.
Nel nostro settore l’idea iniziale deve “inevitabilmente” calarsi nella realtà produttiva: se così non fosse non servirebbe a nulla. Un’idea che non riesca a concretizzarsi in un oggetto destinato al mercato, a pensarci bene, non si potrebbe definire né bella né valida ed il suo destino sarà quello di rimanere nel cassetto.
Le idee sono una materia importante per il designer perché hanno una forza dirompente: un’idea che abbia un reale valore non può passare inosservata!
A.C.
Ricordo che circa vent’anni fa mi aveva molto colpito la parete cucina Skyline progettata da Paolo Orlandini e Roberto Lucci per Snaidero, caratterizzata da un top curvilineo, avvolgente e da una distribuzione degli elementi funzionali molto studiata, a tal punto che, guardandola, si poteva immediatamente immaginare la sequenza dei movimenti della persona addetta alla preparazione dei cibi. Il concept era basato sull’eliminazione fisica del superfluo per creare un’ambiente altamente funzionale. Ora, in un momento in cui l’evoluzione tecnologica ha fatto sì che non siano neanche più riconoscibili gli elementi strettamente tecnici (piani cottura e cappe invisibili sotto top, comandi vocali che fanno venir meno alcune gestualità “arcaiche”), dobbiamo dire addio per sempre a quella immagine, anche concettualmente molto bella, alla base della vostra Skyline?
F.O.
Vedendo alcuni prodotti attuali in cui viene negata la visibilità stessa della funzione (piani cottura ad induzione sotto top di cui risultano nascosti anche i comandi) mi sento di dire che, forse, si sta eccedendo rispetto ad un approccio iniziale che consisteva nell’occultare il più possibile le parti tecniche dell’ambiente cucina in funzione di un’estetica omogenea e minimale.
Vent’ anni fa la nostra Skyline ha avuto, però, una genesi diversa anche rispetto a tutte le altre cucine dell’epoca. Nel 2001 il Consiglio dell’Unione europea aveva proclamato il 2003 “Anno europeo delle persone con disabilità” con l’obiettivo, tra gli altri, di sostenere azioni concrete per le pari opportunità. È con questo approccio che abbiamo progettato una parete cucina in cui tutte le funzioni erano semplificate e adatte a persone costrette sulla sedia a rotelle, dispositivo che abbiamo utilizzato in Studio per qualche mese. Abbiamo realizzato il modello di un piano di lavoro curvilineo e studiato tutte le attrezzature che dovevano essere raggiunte con facilità stando seduti sulla sedia per disabili, ottimizzando forme e posizionamento dei componenti.
Skyline ha riscontrato molto successo sin dal debutto sul mercato tant’è che, dopo un anno, Snaidero decide di proporla anche in una veste non specificatamente per disabili: è stata la best seller dell’azienda per diverso tempo. Da cinque anni circa non è più in produzione, molto probabilmente perché la sinuosità della sua linea non corrisponde più al gusto contemporaneo.
Rimane tuttavia curioso il fatto che un oggetto pensato e realizzato per una utenza specifica, una minoranza, poi venga esteso a tutti i possibili fruitori: è un processo che solitamente avviene in modo inverso.
A.C.
Folco, la vostra produzione è molto vasta e sarebbe veramente riduttivo parlare di un prodotto piuttosto che di un altro. Tuttavia mi è piacito moltissimo il modo in cui, in un video, presenti il sistema di sedute DIVO che avete progettato per LAS e che richiama come concept il gioco del LEGO. Riprendiamo qui il discorso?
F.O.
Sono sotto gli occhi di tutti le trasformazioni che hanno coinvolto l’ambiente ufficio negli ultimi anni: termini quali dinamicità, riconfigurabilità, mutevolezza non sembravano appartenere a questo luogo di lavoro che tendeva ad essere cristallizzato nelle classiche aree funzionali: operativa, direzionale, d’attesa e ristoro. Questa rigida suddivisione oggi non risulta più necessaria e neanche auspicabile: i dispositivi tecnologici consentono di creare postazioni di lavoro ovunque, di fare riunioni in caffetteria, videochiamate comodamente seduti su un divano, ecc.
Viene da sé che anche gli elementi che arredano gli spazi d’ufficio debbano possedere le medesime caratteristiche di flessibilità.
Nel disegnare il sistema di divani DIVO abbiamo diviso l’oggetto in tanti pezzi componibili, integrabili anche a distanza di tempo: si possono aggiungere degli schienali alti e trasformare il divano in un piccolo hub qualora si presentasse la necessità di avere maggiore privacy, oppure si possono sostituire alcuni elementi con un tavolino, aggiungere il cablaggio, ecc.
Con DIVO abbiamo portato all’estremo il concetto di dinamicità e riconfigurabilità, a servizio della creatività degli arredatori e delle esigenze degli spazi di lavoro.
Nel descrivere questo sistema componibile di sedute, il paragone più immediato che mi si è affacciato alla mente è stato il gioco di costruzioni LEGO che non propone oggetti già definiti ma piccoli elementi dalla cui aggregazione nascono casette, trattori, fiori, dinosauri…: tutto ciò che la fantasia può suggerire.
A.C.
Quindi, Folco, in base a quanto hai esposto prima e considerato che una gran parte della vostra produzione è rivolta al contract e all’office, quali sono le tue previsioni per il futuro di questi settori soprattutto pensando che i luoghi di lavoro stanno diventando sempre meno fisicamente identificabili?
F.O.
Dinamicità e frammentarietà degli ambienti di lavoro, a mio avviso, non sono mode ma tendenze irreversibili. La labilità dei confini tra gli spazi è diventata un fenomeno consolidato: si può lavorare in aeroporto mentre si è in attesa dell’imbarco o durante il viaggio in treno e si tende ad adibire anche uno spazio domestico per il lavoro d’ufficio.
Mi sembra che l’ufficio stia diventando sempre più “casa”, con divani e poltrone che prendono il posto delle classiche scrivanie:
è una tendenza che non vincola a nulla, aperta a continui rinnovamenti che niente sottraggono al concetto stesso di luogo di lavoro, anzi; lavorare in un ambiente con un aspetto più domestico oltre ad essere indubbiamente più piacevole pare che sia anche più produttivo rispetto ad un luogo formale.
A.C.
In che modo il mondo del product design sta supportando i cambiamenti che sono sempre più evidenti nella nostra contemporaneità? C’è stato veramente un cambio di paradigma, un nuovo approccio progettuale? Qualcuno del settore sostiene che occorra indirizzare le energie più nello studio di processi che nella produzione di oggetti. Quale è la tua/vostra posizione rispetto l’argomento?
F.O.
È la normativa stessa che impone al designer determinate scelte. Sappiamo, ad esempio, che non possiamo prevedere inserti metallici in elementi realizzati in poliuretano perché, a fine vita, il materiale non risulta facilmente riciclabile. Ecco, quindi, che siamo obbligati a studiare soluzioni alternative quali, ad esempio, strutture in poliuretano più rigido, in sostituzione del metallo.
Nel caso della plastica penso che occorra innanzitutto capire bene l’uso che se ne fa, perché è solo da un utilizzo sbagliato di questo materiale –che, non dimentichiamo, ha cambiato il mondo ed è riciclabile al 100% -che possono nascere i problemi.
Dopo tutte le crociate antiplastica partite negli ultimi anni (vi ricordate la guerra alle cannucce per le bibite?), dopo tante chiacchiere e informazioni imprecise, oggi sono arrivati sul mercato materiali realizzati al 100% con plastiche di riciclo.
L’azienda veneta BRADO, ad esempio, produce il polipropilene RINASCO che ha caratteristiche identiche ad una plastica vergine ma che deriva da un mix di materiali di provenienza post industriale e post consumo.
Con questo materiale è stata realizzata la sedia monoscocca NUKE che abbiamo disegnato proprio per BRADO:
possiamo sicuramente dire che il suo processo di produzione non abbia inquinato più di tanto e che a fine vita potrà essere nuovamente riciclata.
Il designer, oltre alla scelta di materiali ecosostenibili, può adottare un comportamento virtuoso progettando oggetti con forme tali che garantiscano le medesime prestazioni, a fronte dell’impiego di una inferiore quantità di materiale. La sedia DROP, che abbiamo studiato nel 2008 per il brand INFINITI, ad esempio, pesa 3,2 kg contro i 5,5 kg di media delle altre sedie: siamo riusciti ad ottenere questo risultato attraverso lo studio di un design avvolgente che ha consentito di avere una parte della scocca con un profilo molto sottile.
Credo che oggi si debba affrontare il tema dell’ecosostenibilità in maniera matura, con la consapevolezza che ciascuno di noi deve essere disposto a fare la sua parte per la salvaguardia dell’ambiente. Per questo occorre andare in profondità ponendosi domande molto semplici, del tipo: “Elettrico coincide sempre con green”? Da quale fonte proviene l’energia elettrica?”.
Fermarsi alla superficie delle grandi tematiche contemporanee significa solo mettere piccole pezze ad un problema dalle dimensioni più estese.
A.C.
Nel vostro palmarès ho contato 18 premi vinti a partire dal 2000 più una candidatura nel 2022. Ad un certo punto non subentra una sorta di assuefazione, soprattutto pensando che negli ultimi anni si è moltiplicato il numero dei design award contest?
F.O.
Ottenere riconoscimenti non rappresenta per noi un must; indubbiamente fa molto piacere che le aziende presentino i nostri progetti ai vari contest.
Da quest’anno, ad esempio, collaboriamo con NARBUTAS, un’azienda lituana che produce mobili per uffici: il brand si è presentato con il nostro sistema di scrivanie ARQUS a cinque premi molto blasonati e noi non possiamo che esserne soddisfatti perché significa che si crede nella bontà del nostro lavoro.
A.C.
Per ultimo una domanda, magari un po’ scomoda, ma a cui tengo moltissimo e alla quale non so dare una risposta: il design è democratico?
F.O.
Ti confesso che da quando, qualche giorno fa, mi hai prospettato una domanda anche su questo argomento io non ho fatto altro che pensarci e posso dire, oggi, di avere la mia risposta!
Innanzitutto dobbiamo chiederci che cosa si intenda con l’aggettivo “democratico” riferito al design. Se si intende che gli oggetti di design debbano essere fruibili da tutti, la mia risposta è: sì, il design è democratico.
Chi come me si occupa di disegno industriale, progetta oggetti destinati alla produzione seriale e non per una élite: sono prodotti che, nella più alta delle aspirazioni, nascono con lo scopo di migliorare le routine quotidiane di quante più persone possibili.
Se, invece, per “democratico” intendiamo che il design debba essere comprensibile da tutti allora rispondo avanzando qualche dubbio.
Mi spiego: gli oggetti devono contenere sicuramente una componente di piacioneria/bellezza, devono essere riproducibili ad un prezzo contenuto e raccogliere i favori del pubblico, ma devono anche proporre innovazione e, se vogliamo, anche “sconvolgimento” perché altrimenti continueremmo a produrre le stesse cose intervenendo con minimi cambiamenti solo su forme, colori e materiali.
Ecco quindi che è proprio nella sua componente di innovazione che il design può diventare incomprensibile, e quindi non “democratico” in quanto non capito da tutti.
Faccio un esempio: lo sgabello MEZZADRO, disegnato nel 1957 da Achille e Pier Giacomo Castiglioni, già al suo debutto sul mercato (avvenuto qualche anno dopo con l’azienda Zanotta) ha suscitato non poche perplessità, le stesse che provano coloro che lo vedono per la prima volta oggi. Eppure è, ed è stato, un oggetto rivoluzionario, un’icona del design.
Chiedersi se il design sia democratico è come domandarsi se la musica e il cinema siano democratici: sono alla portata di tutti ma non da tutti, secondo i generi, comprensibili o apprezzabili.
Si chiude qui la chiacchierata con Folco Orlandini, non senza una tirata d’orecchi da parte sua perché, pur trovandoci a pochissimi chilometri di distanza dal suo studio, nell’hinterland milanese, abbiamo programmato un’intervista online.
Ci sarà sicuramente l’occasione per incontrarci, quando la ristrutturazione di cui ci ha raccontato sarà completata, per vedere e, magari, documentare fotograficamente la sua “CASA e BOTTEGA”.
s f o g l i a l a g a l l e r i a
ORLANDINI DESIGN S.A.S di
ORLANDINI FOLCO & C
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