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Design,  Interviste

Viviana Degrandi: la ricerca degli archetipi

a cura di Annamaria Cassani

“Gli oggetti che ci circondano devono essere “amici” che ci aiutano nelle cose di ogni giorno”.

Nulla è più come prima.

Dopo la chiacchierata con Viviana Degrandi, gli oggetti della mia casa mi appaiono sotto una veste diversa: non sono cambiati loro, è cambiato il mio sguardo.

La designer piemontese, naturalizzata milanese, si rapporta con diversi settori di product design in cui è attiva con “un approccio silenzioso, che procede per piccoli passi ma che come risultato vede un’alta qualità […] un estetica semplice e onesta che lascia che gli oggetti esprimano la loro essenza”. 

Per Viviana Degrandi Un oggetto ben progettato può trasformare una giornata o un momento ordinari in attimi speciali”.

Seguiamone il racconto.

Annamaria Cassani
Viviana, dalle colline di Gattinara- borgo piemontese di antica fondazione noto per la produzione del pregiatissimo vino omonimo – alla metropoli milanese: è stata una scelta obbligata per il tuo lavoro? Te lo chiedo perché altri designer hanno, invece, fatto la scelta di rimanere in provincia.

Viviana Degrandi
Ho sempre amato Milano: quando mia sorella era studentessa universitaria mi capitava di raggiungerla durante i fine settimana e insieme giravamo per negozi e mostre, godendo dei tanti stimoli che la metropoli offriva.

Ho deciso di proseguire i miei studi in questa città, presso il Politecnico e, dopo la laurea, mi sono stabilita qui perché ho trovato, nel quotidiano, quella dinamicità e propensione al cambiamento che per me sono elementi indispensabili, accanto all’ esigenza di sottrarmi da una sorta di controllo sociale tipico delle piccole città di provincia.

Mi piace la vita che conduco a Milano, compresi i lunghi spostamenti con i mezzi pubblici che devo affrontare ogni giorno per raggiungere il mio studio in via Tortona: li vivo come attimi preziosi per un ripasso della programmazione della giornata lavorativa durante il  viaggio di andata e dell’ organizzazione della mia vita familiare, al ritorno; sono momenti  di necessario “stacco” mentale tra i due ambiti perché, la formula “casa e bottega”, sperimentata all’inizio della mia attività professionale e, recentemente, durante il periodo pandemico, non fa per me!

MA…, ritorno a Gattinara in media ogni due settimane: qui ho i miei affetti familiari e il gruppo storico di amici, il tutto inserito in un contesto naturale ricco di colline, boschi, fiumi che hanno su di me l’effetto di una vera e propria camera di decompressione.

A.C.
Il contesto in cui sei nata a e cresciuta ha in qualche modo influenzato la tua vocazione? Qual è stato il momento preciso della vita in cui hai capito che quella del product design era la strada da seguire?

V.D.
Ho sempre avuto una passione per il disegno e sin dalle scuole medie mi ero accorta di avere, in questa disciplina, una marcia in più rispetto ai miei compagni di classe. Il liceo artistico avrebbe dovuto essere il mio sbocco naturale ma ho preferito studi scientifici perché mi sembrava che mi potessero dare più opportunità di scelta ed anche maggiormente assecondare la mia passione per il giornalismo.

Nella mia vita sono stati due gli elementi fondamentali che hanno influenzato le scelte rivelatesi poi decisive per la mia professione: una meravigliosa insegnante di disegno tecnico che, durante gli anni del liceo, ha saputo trasmettermi passione per la pratica della rappresentazione grafica degli oggetti, e poi, con effetto di una vera e propria folgorazione, la vista di un lavoro grafico (lo studio di un nuovo font) elaborato dalla compagna di alloggio di mia sorella.

Mi sono iscritta, pertanto, al corso di Comunicazione Visiva ma dopo un anno ho rinunciato agli studi perché l’impatto con la città mi aveva inaspettatamente destabilizzata e sono rientrata a Gattinara dove ho lavorato per qualche mese come operaria presso una fabbrica di rubinetti.

È stata mia mamma che, stanca di vedere messo in disparte il mio talento naturale, mi ha sollecitato a riprendere gli studi accademici: mi sono iscritta al corso di Fashion Design e Management che nel frattempo si era avviato presso il Politecnico di Milano: il mondo della moda mi era familiare perché mia mamma, sarta di professione, collaborava con un’azienda di alta moda.

Il corso si è rivelato per me molto soddisfacente perché era incentrato sulla progettazione di accessori per la moda ma, soprattutto, sull’insegnamento di un metodo di progettazione che mi ha aiutato moltissimo nello sviluppo di una sensibilità nei confronti di materiali e colori.

A.C.
Viviana, come e perché è avvenuto il tuo passaggio dall’ambito del design per la moda al product design per il settore degli articoli casalinghi e food?

V.D.
Dopo la laurea ho iniziato collaborazioni con importanti brand appartenenti al settore della moda, un mondo indubbiamente affascinante ma che ho voluto abbandonare dopo pochi anni perché in contrasto con la mia inclinazione naturale e le mie aspirazioni:

progettare oggetti che durassero nel tempo e che, magari, a distanza di anni si potessero arricchire di altre valenze, oltre a quelle funzionali, quali un rinnovato piacere nell’utilizzo o ricordi di tipo affettivo.

Questo aspetto era fortemente in contrasto con quello che accadeva nell’ambiente moda, nel quale si investiva un’enorme quantità di energia per realizzare capi che solo dopo pochi mesi venivano considerati “vecchi”.

Ho iniziato, pertanto, la collaborazione con altri progettisti e nel 2012 ho aperto il mio studio.

A.C.
In un post pubblicato sul tuo profilo Instagram scrivi: “La percezione della realtà è sempre filtrata dai nostri preconcetti e dal nostro vissuto. È bene prenderne atto, ognuno di noi vive una propria realtà”.
Nel condividere totalmente l’assunto, ti chiedo quali siano le vie da seguire per chi si occupi di design del prodotto per far sì che gli oggetti vengano percepiti nel modo più vicino possibile alle intenzioni del progettista. Potrebbe essere, come ho letto nella tua biografia la “ricerca di un equilibrio tra la rottura con l’esistente e la proposta di un nuovo che sia familiare”?

V.D.
Premessa: un progetto che implichi una produzione industriale che abbia senso deve inevitabilmente portare ad un certo successo commerciale, non si può progettare astraendosi dal mercato di riferimento.

È per questo che la ricerca degli archetipi diventa per me fondamentale:

penso che gli oggetti vadano progettati considerando l’esistenza di una “coscienza collettiva” che rende ciascuno di noi parte di un “tutto” e che fa riconoscere a tutte le culture la funzione di un prodotto e le modalità del suo utilizzo.

Oggi si assiste ad un’astrazione delle forme basata sulla ricerca del “minimale” che rasenta, in alcuni casi, una ermeticità spinta a tal punto da non rendere più riconoscibile la funzione dell’oggetto stesso.

Penso che a dare l’avvio a questa tendenza sia stato, nei primi anni 2000, il debutto sul mercato dell’iPhone: le sue forme arrotondate, molto riconoscibili, hanno, secondo me, scatenato una psicosi collettiva: si pensa prima alla forma, che segue i canoni dell’estetica contemporanea, e poi alla funzione dell’oggetto.

È la funzione che dovrebbe “comandare” il rapporto con l’utente e l’operazione di “pulizia delle linee” dovrebbe arrivare in seconda, se non in terza, battuta.

A.C.
Parlando di archetipi, possiamo dire che la lampada ad olio VIVA e il colino per verdure DROP (premiato nel 2015 al Red Dot Concept Design Award, sezione cucina) entrambi disegnati per l’azienda danese Rig-Tig, si basino, l’uno su una forma molto familiare e riconoscibile e l’altro sulla riproduzione di un gesto ancestrale?

V.D.

Per la lampada da tavolo Viva sono partita ragionando sulla forma archetipale a cui tutti noi pensiamo quando si parla di un oggetto casalingo che diffonda luce: l’abat-jour, il paralume tradizionale. In questo caso la forma “familiare” utilizzata offre anche il vantaggio di proteggere la fiamma dall’azione del vento.

È realizzato interamente in vetro borosilicato colorato – un materiale resistente e facile da lavorare – e, pertanto, risulta anche facile da smaltire a fine vita.

Ha avuto, e ha tuttora, un grande successo commerciale, ti confesso, inaspettato.

Lo sciacqua verdure DROP deriva, invece, dalla riproposizione di un gesto antico, andato perduto con l’avvento delle centrifughe a manovella: agitare l’insalata avvolta in un canovaccio dopo l’operazione di pulizia, per asciugarla prima dell’aggiunta dei condimenti.

Con DROP si semplifica l’operazione di lavaggio e scolatura delle verdure perché l’acqua viene convogliata direttamente nel contenitore, forato come un colapasta, attraverso il manico: basta poi agitare l’oggetto allo stesso modo in cui si agitava il familiare canovaccio.

A.C.
Nella biografia che appare sul tuo sito web si legge anche: “Gli oggetti che ci circondano devono  essere amici che ci aiutano nelle cose di ogni giorno”. È interessante questo punto di vista perché mi  sembra di ravvisare una certa “umanizzazione” degli oggetti stessi che progetti che si evidenzia non solo per il ruolo che ricoprono, ma anche nel rispetto delle caratteristiche dei materiali di cui sono fatti.

Approfondiamo?

V.D.
Gli oggetti che ci circondano devono essere per noi veramente degli amici: devono aiutarci, starci vicino e durare nel tempo.

In questo senso possiamo effettivamente parlare di una sorta di “umanizzazione” anche se preferisco parlare più di un personale culto per l’oggetto realizzato bene.

Io utilizzo, ad esempio, uno sbuccino per patate che apparteneva a mia nonna: ci credi se ti dico che non sono riuscita a trovarne un altro, più moderno, che facesse altrettanto bene la sua funzione?

Sono consapevole che prima o poi questo oggetto mi abbandonerà perché la plastica del manico inevitabilmente ed irrimediabilmente si deteriorerà, ma per adesso rappresenta per me un vero e proprio amico affidabile in cucina.

Penso che sia proprio questo ciò che ci si debba aspettare dagli oggetti che ci circondano: come una coperta di Linus, possono diventare parte della nostra sfera affettiva.

A.C.
A proposito di “umanizzazione” e di “percezione personale della realtà” vorrei parlare della lampada  FLOAT che hai firmato per GANTRI. In un’intervista riportata sul sito aziendale dici che FLOAT è stata  progettata secondo un concept di versatilità mentre la collezione di lampade PAVONE punta più sul piano  emozionale. La mia interpretazione, invece, è che FLOAT sia l’immagine ironica di una lampada che, stanca di  reggersi nella sua verticalità in appoggio su tavolo o a parete decide di “riposarsi” un po’ accasciandosi su di loro. Sono in errore se penso che, pertanto, è la lampada che tutti vorremmo avere in casa?

V.D.
Curiosa questa tua interpretazione!

In realtà FLOAT, il mio primo progetto di lampada, nasce in modo diverso: desideravo realizzare un prodotto per l’illuminazione che sviluppasse una maggiore interazione con l’utente, un rapporto più intimo. Solitamente le lampade, che siano da terra, da tavolo, sospese o a parete, tendono a rimanere, nel tempo, nella medesima posizione.

Con FLOAT invece risulta molto facile portare luce puntuale là dove serve: lo stesso modello funziona come lampada da tavolo e da parete. FLOAT è interamente stampata in 3D e proprio per questa particolarità mi sono dovuta attenere ad una serie di prescrizioni legate anche alla commercializzazione del prodotto, un necessario recinto di paletti che non ha tuttavia impedito la mia libertà di espressione: ho trovato nell’azienda un costante e validissimo supporto lungo tutto il percorso progettuale.

FLOAT non è certamente il bestseller di GANTRI, che si rivolge prevalentemente al mercato americano, ma sono comunque molto soddisfatta perché il prodotto è in catalogo sin dal debutto della start-up, avvenuto nel 2017, e la mia collaborazione con l’azienda è tutt’oggi attiva con novità di cui ancora, però, non posso parlare.

A.C.
Nella medesima intervista parli dell’importanza che ha per te la natura e la sua salvaguardia. Ho trovato molto appropriata la scelta di un fondale naturale nelle immagini di presentazione di alcuni tuoi prodotti che sembrano perfettamente armonizzati con la natura, quasi fossero suoi frutti. Mi riferisco in particolar modo a SERICA, una collezione di armadi e credenze che hai firmato per MEDULUM, ispirandoti alla laguna di Venezia. Ce ne parli?

V.D.
Il brand porta il nome latino del corso d’acqua che le nobili famiglie veneziane percorrevano per raggiungere le loro abitazioni estive da Venezia. Durante questo percorso utilizzavano bauli, accuratamente imbottiti con stoffe preziose, per il trasporto degli oggetti.

È a questi antichi contenitori che mi sono ispirata per la collezione SERICA: desideravo progettare mobili che, contrariamente a quanto avviene di solito, suscitassero stupore all’atto delle aperture delle ante, con la visione dell’interno. Alla linearità delle forme esterne ho voluto contrapporre la ricchezza dei rivestimenti delle pareti interne, realizzati con tessuti dalla lavorazione preziosa, un ideale fondale per la custodia degli oggetti a noi cari.

A.C.
Nel 2023 fondi il brand ACQUAVIVA in collaborazione con uno storico artigiano del quartiere Dergano di Milano, Franco Bevilacqua.  Riporto testualmente dal tuo sito web: “La realizzazione di oggetti realizzati a mano con tecniche tradizionali e sostenibili, hanno un valore intrinseco, sono senza tempo, portano con sé  una dimensione del lavoro che si sta perdendo, scandito dai tempi della materia e dell’uomo”.
Possiamo, quindi, parlare (ancora e per fortuna) di “intelligenza artigianale”?

 

V.D.
Ho conosciuto il Maestro Artigiano Franco Bevilacqua qualche anno fa: cercavo un falegname per un piccolo lavoro da realizzare per la mia casa, nel quartiere milanese di Dergano.

Ricordo ancora la sensazione che ho avuto nel varcare per la prima volta la soglia del suo laboratorio: mi si è aperto un mondo, un luogo meraviglioso governato da una persona dal carattere eclettico e che, una volta superata un’innata diffidenza, come un incantatore di serpenti ti affascina con i racconti della sua vita densa di cose, persone e significati.

Ero rimasta in particolar modo colpita da alcuni mobili esposti, progettati e realizzati senza l’ausilio di macchine a controllo numerico – veri e propri pezzi unici – e mi ero ripromessa di rivolgermi a lui per esigenze legate alla mia attività.

L’occasione si è presentata per il prototipo di un tavolino ma il Maestro Bevilacqua ha pensato bene di assegnarmi una postazione di lavoro all’interno del suo laboratorio e di insegnarmi alcune lavorazioni manuali.

Dopo questo primo approccio ho seguito il suo “gettonatissimo” corso serale di falegnameria e ho iniziato ad accarezzare l’idea di una collaborazione per la realizzazione di manufatti di design realizzati artigianalmente dalle sue mani, ricche di antico sapere, su mio disegno. È nato così un mobile bar di gran pregio, ispirato alle ruote tibetane utilizzate per la preghiera, e nel 2023, è stato fondato ACQUAVIVA, un brand che realizza mobili in edizione limitata e sotto il cui nome si cela una bellissima collaborazione a 4 mani.

Dopo qualche mese di fermo [i motivi si scopriranno alla fine dell’articolo, n.d.r.] si riprenderanno a breve i progetti rimasti sul tavolo.

A.C.
In un post sul tuo profilo Instagram hai omaggiato Vittorio Gregotti proprio nel giorno della sua  scomparsa, il 15 marzo del 2020, pubblicando la foto di un suo libro, “Il disegno del prodotto industriale”,  sul quale, scrivi, hai studiato molto. Quali insegnamenti hai tratto da questa lettura?

V.D.
Per diversi mesi questo libro, che faceva parte della bibliografia richiesta per l’esame di storia del design, ha rappresentato per me una fonte di angoscia: facevo fatica a memorizzare le date e i dettagli di tutti i prodotti che vi comparivano e che venivano puntualmente richiesti dall’esaminatore.

A distanza di anni, e a mente lucida, mi sento di dire che quello che è emerso chiaramente nel libro di Gregotti è lo stretto rapporto che deve esistere, nell’ambito del design, tra il progettista e l’industria.

Se il design detto “industriale” nasce per la diffusione in grandi numeri dei prodotti, vien da sé che l’industria debba giocare un ruolo fondamentale altrimenti si resta nel campo dell’artigianato.

Sono due settori, artigianato ed industria, sul medesimo piano valoriale: nel primo caso si compra il “cuore” di una persona, riversato sull’oggetto realizzato con le proprie mani, nel secondo si acquistano le ore di lavoro dei macchinari dell’azienda ed il pensiero di un progettista che si tramuta in un prodotto seriale attraverso il processo industriale.

Ho constatato che l’imprescindibilità del rapporto tra designer e industria che ha caratterizzato l’epoca d’oro del design italiano, oggi si sia un po’ venuta meno, complice anche la delocalizzazione produttiva: mi sembra che per alcune realtà industriali si sia rotto un anello della catena e che il lavoro di progettazione del designer sia diventato un bell’accessorio di cui l’azienda può disporre a propria discrezione all’interno del ciclo produttivo.

Penso che un la bontà di un progetto sia sempre il frutto di un lavoro a quattro mani e si ottenga nel momento in cui si crea un affiatamento e un dialogo costruttivo tra progettisti ed aziende.

Si chiude qui la chiacchierata con la designer: avevamo ancora un paio di argomenti da approfondire, ma attraverso il collegamento video giunge a noi il pianto di colui che, ne siamo certi, sarà uno dei più bei progetti che Viviana avrà realizzato nella vita: è Federico, che, a gran voce, sta chiamando la sua (neo)mamma.


s f o g l i a l a g a l l e r i a

ospite
VIVIANA DEGRANDI
Industrial Design Studio
Spazio BUG18 – Via Tortona 16 20144 Milano
📩 info@vivianadegrandi.it

📞 +39 338 1914295


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