Il design del non-finito: l’alternativa per l’interior design?
a cura di Riccardo E. Grassi
Quali percorsi ci propone l’architettura per il riuso degli spazi e la rigenerazione degli “avanzi”?
Ecco, comincerei proprio così, rubando le parole dell’Autore che, pur riferendosi a un testo di Mario Praz (pag. 91), in realtà trovo calzanti anche per la sua stessa pubblicazione.
Il libro di Luciano Crespi (Design del non-finito, Postmedia books) può anche essere letto dall’inizio alla fine, come solitamente si fa, oppure offrirsi come un canterano d’alchimista, prezioso di tanti cassetti, ognuno aperto indipendentemente dall’altro ed alternativamente in grado di informare, sollecitare nuovi percorsi, talvolta provocare o bonariamente redarguire (per esempio quando commenta, e sono d’accordissimo, la superficialità di talune affermazioni, corrive e conformiste, di Emanuele Coccia in “Filosofia della casa”, Einaudi), cassetti comunque capaci di spingerci su nuovi tracciati della conoscenza e verso l’irrinunciabile magistero della disciplina.
Perché accennavo ai cassetti? Il libro contiene tre parti, ognuna composta di tre capitoli, ed una premessa di altrettanti scomparti: ho voluto cogliere in questa ripartizione, ma è un’impressione del tutto soggettiva, una concessione alla libertà di procedere che appartenesse soprattutto al lettore.
Vale a dire l’arbitrio di saltare tra la fine e l’inizio, oppure atterrare nel mezzo, riprendere dalla lunga premessa (pag.7 – 33) o bordeggiare lungo i restanti capitoli.
I “Paradigmi” (cap. 5), per esempio, ci conducono ad approfondire le ragioni per cui i progetti e i loro autori sono esaminati in queste pagine pur non rientrando in alcun modo nel sottotitolo: “interior design nella rigenerazione degli avanzi”.
Ecco il mio dubbio: s’attestano come magistrali esempi d’architettura, tuttavia fatico ad agganciare tale dichiarazione con la ristrutturazione di un ristorante (il Mercato del Duomo) o con un analogo intervento alle Gallerie d’Italia, entrambi a Milano ed entrambi di Michele De Lucchi.
E coltivo una simile perplessità anche riguardo agli altri progetti richiamati, di altrettante importanti personalità di quel mondo: Marco Zanuso, Ugo La Pietra, Attilio Stocchi, Martì Guixè.
I paradigmi sono naturalmente molto ben documentati e li guardo con l’invidiosa attenzione che sempre mi suscita il miscuglio di bravura, creatività e visione: non capisco però l’intenzione di inserirli in questo contesto che nulla accenna alla gestione e/o interpretazione delle dinamiche del non-finito, anzi risolvendo l’ars aedificatoria come una “normale”, seppur notevole, attività edilizia e di riprogettazione di ambienti e funzioni, aggiornandole alla contemporaneità. Ma tant’è.
Un’analoga sensazione l’ho percepita leggendo il cap. 6. Davvero interessanti le argomentazioni sull’exibition design che si “candida a diventare l’approccio progettuale adeguato ad affrontare in modo innovativo la questione della rigenerazione degli ambienti esistenti, interni ed esterni…” ma il grande impatto scenografico di tali architetture, al di là della loro spettacolare, irrinunciabile funzione di offrire al pubblico il portato di aziende o dei loro materiali in esposizione, come si pone rispetto ad un percorso di non-finito? Come si allea o lo risolve?
Tra l’altro, ai fini di questo scritto, poco conta, a mio parere, che nel mondo “si trovino esempi di allestimenti che tendano ad una sorta di introiezione degli esterni” così che vengano a smarginarsi i confini del dentro rispetto al fuori:
il fatto che all’estero esista questa tendenza, più o meno marcata, perché dovremmo vederla automaticamente applicata anche da noi?
Ogni architetto ha una propria visione, creatività e cifra stilistica che dovranno fatalmente contenere e trasmettere, oggi più che mai, il cosiddetto brand purpose dell’azienda stessa, vale a dire che quel palcoscenico per prodotti ed attività dovrà comunicare anche i valori, cioè la ragione per cui un marchio esiste, al di là dei profitti (etica, sostenibilità, qualità, impegno verso la comunità, ecc.).
Qui devo richiamare le indicazioni che denunciano la mia provenienza dal mondo del marketing: da qualche anno in qua gli allestimenti, a maggior ragione quando chiamano in causa importanti nomi dell’architettura, seguono la cosiddetta marketing experience e la costumer journey, due “ingredienti” che permettono al consumatore di “vivere” il brand tramite un evento espositivo e partecipativo che lo coinvolga, tocchi i suoi cinque sensi e gli crei delle emozioni.
Qui intervengono la sociologia dei consumi e la psicologia nonché, ultimamente, anche le neuroscienze. Ben si vede, a questo punto, che un allestimento scenografico è elemento irrinunciabile per innescare lo stupore, e l’architettura è la prova madre della migliore riuscita: cambia la gerarchia e la logica degli spazi, ridefinisce i flussi, rivaluta ambienti e funzioni.
Interessanti, sul tema, le indicazioni che si traggono dal volume “L’esperienza degli spazi di consumo” (Franco Angeli Editore). Tuttavia ritorno al mio dubbio: mi sfugge il nesso col non-finito. E ritorno anche alla godibile costruzione del testo: possiamo aprire i cassetti/capitoli come ci vien meglio, prima il sesto o il secondo non fa differenza, il filo che li unisce è sottile e tenace, ma gli argomenti autonomi.
Il cuore della questione si esprime nel cap. 1 (“Una nuova specie di spazi dismessi”) dove si scrive che l’origine “del fenomeno della dismissione degli spazi industriali viene messa in relazione alla crescita in tutto il mondo occidentale dei processi di deindustrializzazione”.
Concordo, lo constato nella mia quotidianità lavorativa e condivido l’affermazione successiva: “La conseguenza è costituita dal passaggio dall’espansione alla trasformazione”.
Il che porta, e sempre più accadrà in futuro, un ridimensionamento degli immobili.
Assistiamo ad un ripensamento della struttura delle filiere, del ruolo e dell’impatto della logistica nei sistemi industriali e perciò della stessa globalizzazione.
Negli ultimi vent’anni, col progredire della tecnologia, del digitale, della robotizzazione delle mansioni, dello smartworking, del commercio online ma, soprattutto, con le lavorazioni delocalizzate per ragioni di costo ed efficientismo, le superfici dedicate al lavoro sono andate rapidamente assottigliandosi.
Non si tratta di una semplice spirale recessiva, è una condizione ormai strutturale; non si torna indietro.
Quel che, in occidente, rimane di produttivo si può oggi svolgere in poco spazio e spesso pure da casa.
Non ci saremmo aspettati un’accelerazione di questi trends/strumenti se non immaginandoli nei film di fantascienza.
È invece una realtà che ha portato una nuova forma di “disagio”: il fenomeno della dismissione.
È un abbandono del patrimonio edilizio che non ha precedenti, incalzato dalla denatalità e conseguente crisi demografica, che riguarda ogni destinazione d’uso, che prescinde dalla quantità di metri quadrati del singolo immobile e dalla location.
Il dato è ancora più allarmante, oltre che paradossalmente contraddittorio, se consideriamo che alla progressione degli spazi in disuso corrisponde un maggior consumo di suolo (Rapporto Ispra 2023): solo nell’ultimo anno è di 7.075 l’incremento degli ettari “consumati”.
Ha ragione Crespi nel voler metter mano a quest’argomento, che aveva precedentemente inaugurato col suo “Manifesto del design del non-finito” andando in queste pagine non solo a riprenderlo ma focalizzando e approfondendone maggiormente le sfaccettature.
L’Autore definisce “avanzi” le architetture che si trovano in una sorta di limbo: hanno terminato di svolgere le loro funzioni primitive e non trovano modo di ringiovanire adattandosi a nuovi scopi.
A meno di un opportuno ripensamento costituito da nuovi utilizzi e da un riscatto architettonicamente significativo. Gli avanzi però, sottolinea, non sono gli immobili non terminati, cioè lasciati a metà e perciò “incompiuti”: in tal caso c’è stata originariamente una sorta di volontà, indotta da svariate cause, di non portarli a termine.
Il testo ci pone di fronte alla meritoria idea di organizzare la materia del non-finito che mi ricorda il Leopardi dello Zibaldone: “Senza sistema, non vi può essere discorso sopra veruna cosa”. Quindi, giusto cercare una strada che ne dia conto e che, se non risolve, almeno chiarisce i margini della materia.
L’Autore imposta anche una sorta di regesto in base alla loro identità funzionale, un’eziologia del dismesso che comprende chiese, depositi, stazioni, case cantoniere, caserme, uffici e scuole.
Scoprire perché questi edifici siano stati sedotti e abbandonati costituisce “la premessa indispensabile per capire se si sia in presenza di una fenomenologia temporanea oppure di un processo irreversibile e in grado di avere ripercussioni a lungo termine sugli assetti urbani attuali” (pag. 37).
Direi che la risposta, ahimè, sta già nella realtà che ci circonda.
Di ognuna di queste identità immobili, chiuse nelle loro solitudini, Crespi ci racconta la possibilità di adottare un lessico architettonico specifico, allineato (ovviamente, verrebbe da dire) con i codici estetici e funzionali della contemporaneità, perciò brillano le pagine che seguono e che riferiscono vari progetti di recupero. E qui ritorniamo all’invidiosa attenzione che sempre mi suscita l’osmosi di bravura, estro e visione che guida la matita degli architetti.
Il discorso, a questo punto, dovrebbe distinguere tra soggetti proprietari, destinazioni d’uso, volumetrie, localizzazioni, cosa che il testo fa solo marginalmente: purtroppo sappiamo per esperienza che nei casi in cui gli immobili hanno una derivazione pubblica l’argomento si complica.
Un esempio per tutti: non basta trovare un nuovo interlocutore (ovviamente solo privato) per riscattare dal suo destino irreversibile una caserma inattiva, occorre una nuova destinazione urbanistica e una serie di modalità operative che appartengono al Comune di riferimento.
La caserma potrebbe essere più o meno interessante da recuperare (anche con l’interior design del non-finito) ma devotamente in accordo con la grafia del Piano Regolatore (o P.G.T., che dir si voglia); l’operatore privato agisce se risultano chiari i tempi e i modi (che impattano, anche violentemente, sulle economie generali).
Quindi è un po’ debole l’annotazione dell’Autore che ritiene parziale, e non sufficientemente consistente, l’opinione secondo cui “l’abbandono e dismissione di questi edifici siano imputabili alla scarsa lungimiranza dell’operatore pubblico” e che ciò, secondo lui, non aiuta “a comprendere la reale dimensione del fenomeno”.
Potrebbe (forse) essere vero riguardo alla dimensione della cosiddetta macroeconomia (troppo spesso investita dalle incursioni della finanza e dalle economie estere, come s’è detto in esordio), ma è tristemente vero che le aree dismesse (e gli immobili, beninteso) sono soggette alla volontà pubblica.
Non sono semplici escoriazioni del territorio che si possono medicare con l’unguento della migliore architettura, occorre una fiammata istituzionale.
In TV, trasmesso da Rai 5, compare un programma eloquente: Ghost Town. Si mostrano interi paesi dilaniati dall’abbandono, disabitati, che nessuno intende più ripopolare, nonostante in alcuni casi si cedano case intere per la cifra simbolica di un euro.
Rimane un’annotazione su tutte: sembra si sia trascurato il calo demografico e le famiglie mononucleari (single o coppie, senza figli); abbiamo più edifici dei possibili abitanti e/o utilizzatori. Aggiungerei, tema che il libro considera solo marginalmente, anche le case private, da tempo rimaste vuote: dalle villette alle palazzine, ai cortili e, fra non molto, anche agli appartamenti di grandi dimensioni (oltre i 140 mq.).
Per chiarire ulteriormente la questione degli spazi dismessi, l’Autore ritiene sbrigativa l’ipotesi che “anche gli edifici abbiano, come gli esseri viventi, un ciclo vitale che, una volta terminato, li porta all’abbandono e alla demolizione” (p. 36).
Non viene riferito chi gliel’abbia sussurrata, tuttavia mi pare un’ipotesi ingenua, più che sbrigativa: il ciclo vitale dell’immobile non è predeterminato come per gli esseri viventi (un giorno moriremo tutti e non ci sarà un dopo): siamo noi, e quelli che ci seguiranno, a determinarne gli usi, a perpetuarne la memoria, a proporre le modifiche, le finiture, le nuove conformazioni, ecc. oppure a sancirne un declino irreversibile.
L’immobile, potenzialmente, è sempre quello. Fatta salva la demolizione, si capisce. Ma in quest’ultimo caso quanto senso avrà parlare di design del non-finito?
Delle vertical farm fino a qualche anno fa non ne indovinavamo le prospettive: ora prendono il posto di preesistenze immobiliari o nascono dal nulla.
Nella pratica lavorativa ho visto mutare destinazione un antico convento a Badia di Sant’Eugenio (fondato nel 730 dal castaldo regio longobardo Warninfredo e donato ai monaci Benedettini Cassinesi): diventerà un hotel?
La camera da letto è diventata quella che conosciamo oggi solo dopo secoli: ce lo dice Chiara Frugoni in “A letto nel Medioevo” (Il Mulino).
Quindi risulta quantomeno ingenua l’affermazione che gli edifici hanno un ciclo vitale: questo è appannaggio delle scelte degli uomini. O, purtroppo, delle catastrofi naturali.
L’utile cap. 9 riporta un consistente numero di esempi che s’avvicinano all’idea di design del non-finito. Le fotografie e le descrizioni ci aiutano a comprendere meglio l’ambito entro il quale si perfeziona il testo. Rimango tuttavia un po’ perplesso riguardo al numero di progetti e realizzazioni: sui 28 delineati, ben 26 sono eseguiti all’estero e solo 2 in Italia.
Davvero interessanti gli interventi “esterni” di Cesare Stevan e Davide Fassi che corredano il testo; “filosofiche” ma solo simpatiche le parole di Martì Guixè che parla di “ospitalità intuitiva”.
Le riporto: “L’auto è un elemento che definisce chiaramente uno spazio come esterno e che comprende un piccolo interno. Da quando esiste l’auto elettrica, e quindi dal suo essere ecologica, è sfumato il confine tra interno ed esterno… Con l’auto elettrica l’esterno è il nostro interno collettivo” (pag. 22).
Non nascondo una certa difficoltà ad allineare questo esile (solo due paginette) intervento con il titolo e il contenuto del libro. Ma tant’è.
Un’ultima annotazione. Le traccianti che chiariscono il sottotitolo del testo (L’interior design nella rigenerazione degli “avanzi”) sono disseminate, a mio giudizio, soprattutto all’interno del cap. 9, vero vademecum didattico e pragmatico di “chi deve fare e che cosa”: suggestioni e accenni a ristrutturazioni, reimpieghi, recupero/rigenerazione di edifici, spazi, aree dismessi.
Per esempio le finiture che vestono e/o completano gli immobili in relazione alle loro destinazioni d’uso: la necessità di utilizzare la quantità minima di materiali possibile, preferibilmente riciclati; le pareti rugose, col mattone a vista, sbrecciate; i cementi armati con la loro crudezza e alternanza di grigiori; le pavimentazioni lasciate allo stato originario, consumate dal passaggio e raramente complanari; la ferraglia di putrelle, tondini e travette sudati di ruggine, e via discorrendo.
In breve, ma senza voler semplificare: gli interventi progettuali si basano sull’intenzionalità di preservare la trama ermeneutica del costruito allineandone le funzioni ai tempi moderni. Perciò, fatte salve le indicazioni che avvolgono il paradigma del non-finito ammettendolo nella categoria delle migliori intenzioni filosofiche dell’architettura e del riuso degli “avanzi”, ho visto in questi anni recenti utilizzare queste stesse finiture e modalità come un sopraggiunto, contemporaneo canone estetico.
Questa nuova grammatica del “costruire” somiglia a ciò che è successo in anni recenti a certi brand quando hanno scoperto l’heritage marketing.
Cioè “cosa” e “come” raccontare il patrimonio storico, materiale e immateriale, di un marchio.
Vale a dire evidenziando qualcosa di unico e di diverso che però non attinga ad un nostalgico com’eravamo, che bensì ne mostri l’identità, la biografia, i valori del passato attualizzandone le suggestioni, facendo leva su empatia e fiducia per rievocare nel pubblico le immagini legate alla propria storia personale ed al senso d’appartenenza, significati simbolici che appagano il cuore più che la testa.
È un acuto, meticoloso lavoro questo di Crespi, che ha portato alla luce l’idea di un’opera organizzabile a partire da ben definiti fuochi tematici
e, se ritengo più che apprezzabili le argomentazioni ricomprese in queste 190 pagine, conservo tuttavia un dubbio:
è possibile che anche il comparto edilizio e l’interior design degli “avanzi” abbiano assorbito, anche involontariamente, questa (non) nuova modalità espressiva promossa dall’heritage marketing?
Lo si dica senza malizia, beninteso.
Stiamo assistendo a recuperi e ristrutturazioni che, specie per gli immobili che custodiscono un passato, propongono gli spazi “rivisti e corretti” in questo stile delabré, fascinoso, che ne esalta l’imperfezione: ecco ristoranti, bar, spazi espositivi e, talvolta, pure abitazioni messi nuovamente a disposizione ma con quell’aura di “vecchi tempi”, una sopraggiunta way of life che incontra.
Mi chiedo, sfogliando i cataloghi di vari prodotti/materiali, se la presenza di queste “citazioni” del passato (ma con la manifattura del tempo presente) non dichiari apertamente l’inaugurazione, anche per la rigenerazione degli avanzi, d’una modalità/stile che già da tempo vive nell’ambito di arredi et similia: sedie in acciaio grezzo con colori fintamente erosi, tavoli rustici, scale di collegamento ai piani realizzate in ferro non verniciato, scaffalature di gusto “industriale” per riporre libri e oggetti e, non ultima, la carta da parati (o come si dice oggi, wallpaper) che imita il muro sbrecciato o l’intonaco imperfetto nei colori e nella “grana”.
Non è, mi chiedo, un canone del non-finito che rischia di venir recepito solo come la conferma di un trend estetico? Alla stregua di quel ch’era successo, qualche anno fa, con finiture/arredi allora in voga tipo “minimalismo”, oppure in “total white”?
Le pagine di Luciano Crespi sono i cassetti di quel canterano d’alchimista, impazienti di essere aperti: vivono delle architetture realizzate o solo idealizzate, vivono per l’atmosfera che il design non-finito evoca, per certi impalpabili cenni e suggestioni, per le improvvise divagazioni. E le ha progettate bene: offre certi dettagli, imposta le linee di fuga, calcola le prospettive, precisa le circostanze, devia su percorsi collaterali, riprende gli schemi.
Una filosofia dell’abitare che deve essere la cifra, non solo stilistica, dell’architettura. E la rigenerazione degli “avanzi” la sua irrinunciabile missione.
s f o g l i a l a g a l l e r i a
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Annamaria Cassani
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