Saverio Lombardi Vallauri: “la realtà non è in bianco e nero”
Fotografo professionista d’architettura, insegnante, divulgatore per riviste specializzate, autore di testi di settore, lettore “ad oltranza”:
Saverio Lombardi Vallauri ci parla del suo lavoro e delle sue passioni.
È lui a porre fine all’intervista on-line: improvvisamente alza gli occhi, immaginiamo, verso un orologio a parete (o verso un viso che silenziosamente lo sta richiamando?) e si accorge che dall’inizio della chiacchierata era passato parecchio tempo:
“Avrete anche voi le vostre cose da fare” ci dice.
Noi, dall’altra parte dello schermo, iniziamo a smaltire i postumi di una “benefica ubriacatura” durata ben due ore, trascorse immersi in un mondo evocato di immagini, di tecnica, di vissuti e di percorsi personali “in salita”, e che hanno avuto come risultato un racconto realista, lucido e aperto sul mondo della fotografia d’architettura e su uno dei suoi protagonisti.
Annamaria Cassani.
Saverio, iniziamo con qualche tua nota biografica?
Saverio Lombardi Vallauri.
Mi sono diplomato all’ Istituto Europeo di Design di Roma, e vi insegno dal 1991, prima nella sede di Roma e, attualmente, in quella di Milano. Da allora tengo corsi sulla teoria e sulla pratica fotografica e seminari di fotografia industriale e di architettura.
Svolgo attività divulgativa con articoli tecnici sulla fotografia di architettura per la Nikon. Ho pubblicato alcuni volumi di teoria fotografica, tra cui “L’apparecchio professionale a banco ottico” per la Nuova Arnica Editrice di Roma. Per anni ho tenuto conferenze sulla fotografia di architettura presso gli Ordini degli Architetti di numerose città italiane. Dal 2018 sono consulente del gruppo Huawei per la qualità degli apparecchi fotografici presenti nei loro telefoni cellulari. Sono un fotografo di architettura, interni, design, arredamento e per il sistema fieristico.
A.C.
Si sente da più parti affermare che la qualità delle immagini che appaiono nei servizi fotografici, soprattutto di interior, è andata nel tempo a diminuire. Sei d’accordo? E se sì, quali sono le motivazioni a tuo parere?
S.L.V.
Quando si dice che la qualità delle foto che si pubblicano è più scadente, di che cosa si parla? Di illuminazione? Di scelta dell’inquadratura? Di correttezza formale della prospettiva? Spero non si stia parlando della qualità digitale rispetto alla pellicola in quanto in questo senso sarei totalmente in disaccordo. Ai tempi delle diapositive non esistevano i 15 stop di gamma dinamica più HDR selettivo che abbiamo adesso e dovevamo portarci appresso 40 kg di materiale per riuscire a governare la realtà.
Posso sicuramente dire che è aumentato il numero di soggetti che producono, distribuiscono e pubblicano fotografie: le riviste on-line possono moltiplicarsi senza essere gravate di costi insopportabili.
L’aumento della capacità computazionale e quindi, a cascata, di rappresentazioni fotografiche ottenute attraverso gli smartphone può generare effettivamente un peggioramento della qualità delle immagini. Solo chi capisce come funzionano i telefoni e come funzionano le macchine fotografiche è in grado di spiegare perché il telefono è un’arma pericolosa: di fatto questo oggetto decide al nostro posto attraverso meccanismi di computazione che sono al suo interno, nascosti ai nostri occhi e che sono i veri responsabili dei risultati.
Se poi aggiungiamo che adesso programmi di postproduzione come Photoshop sono accessibili a tutti abbiamo il quadro della situazione.
Allora qual è la differenza? Cosa fa tenere sul mercato i fotografi professionisti? Il saper scegliere il punto di vista: il punto di vista è tutto, è la prima cosa e senza la scelta perfetta del punto di vista un fotografo non governa né prospettiva, né allineamenti e non restituisce la comprensibilità del progetto che si ha di fronte.
Quindi se affidi a delle persone che hanno desiderio di avere un mercato uno strumento per fare foto senza che abbiano studiato nello specifico, i risultatati saranno deludenti: io stesso se mi mettessi a fare moda risulterei scolastico, decoroso sicuramente perché conosco le tecniche, ma non avrei sicuramente una capacità di restituzione sensibile di quel mondo perché mi manca la capacità di interpretare l’essere umano. Per fortuna di persone che studiano la materia prima dell’intervento fotografico ce ne sono e questo vale per tutti i campi.
A.C.
Restiamo ancora nel campo dell’interior: qual è la tua opinione rispetto a quei professionisti di settore (architetti e non) che arricciano il naso rispetto ad alcuni servizi fotografici che vengono definiti “patinati” perché totalmente privi del vissuto di chi abita quegli ambienti?
S.L.V.
L’architetto è colui che commissiona il servizio fotografico e che vuole vedere la casa come se l’è figurata, quindi meno cose aggiunte successivamente dalla committenza ci sono e meglio è per lui.
Ricordate quanto si era dispiaciuto Le Corbusier quando ha visto cosa era successo al suo villaggio operaio dopo pochi anni, con tutti i balconi riempiti di cose, ecc.? Purtroppo comanda il tempo.
Io sono attento alla realtà e cerco di renderla in qualche misura somigliante a me attraverso delle scelte che siano coerenti con il mio stile, ammesso che io riesca ad averne uno, dopodiché del resto francamente non mi interessa.
Qualcuno dice che le case presentate nei servizi delle riviste di settore appaiono poco credibili, poco vissute o vivibili, o patinate? Sono foto scattate quando sono nuove. Le scarpe o le automobili che col tempo si usurano diventano più credibili per questo? No: è semplicemente un diverso stadio della loro esistenza.
A.C.
In un tuo articolo parli, per la fotografia di architettura, sostanzialmente di tre ambiti: l’ambiente urbano, il singolo edificio (esterni ed interni) e le architetture temporanee (allestimenti, stand fieristici, ecc.): mentre per il primo ambito parli di una fotografia in cui prevale il lato artistico e interpretativo dell’autore, per il singolo edificio affermi che se anche il fotografo ha un proprio stile riconoscibile deve comunque mettere al centro del suo lavoro una capacità descrittiva, perché questo è quello che, prevalentemente, gli viene chiesto. Approfondiamo?
S.L.V.
In quell’articolo, scritto per Nikon, cercavo di semplificare alcuni concetti perché non do per scontato che il pubblico di “Nikonisti” che legge il periodico specializzato sia anche avvezzo alla fotografia di architettura, soprattutto pensando che l’azienda stessa è molto presente con i suoi prodotti sul tema delle fotografie in ambito sportivo e paesaggistico ed un po’ meno interessata alla fotografia di architettura.
Nella semplificazione intendevo dire che difficilmente si fanno fotografie di ambienti urbani su commessa: non si ha un cliente cui rispondere in questo ambito. Penso ad esempio al lavoro di Gabriele Basilico, Luca Campigotto, Francesco Iodice, Marco Introini.
Si tratta tendenzialmente di una fotografia di tipo autoriale in cui il committente è il fotografo stesso, contrariamente a quanto succede quando si deve fotografare un edificio in particolare: in questo caso è doveroso riuscire a sorprendere il committente, generalmente un architetto, magari immaginando relazioni tra parti a cui lui stesso non aveva pensato. Normalmente in un unico servizio si fa un percorso che va dalle viste generali al più piccolo dettaglio che si decide di raccontare, anche della mattonella della tal azienda perché magari il servizio, oltre che sulle riviste di settore, si manda anche alle aziende fornitrici dei materiali, ecc. (io ho iniziato a lavorare per Marazzi in questo modo).
Quindi, quando si deve svolgere un servizio su una singola architettura non si è così liberi ma bisogno sottostare a delle richieste di descrizione.
Ovviamente accade che il mio stile risulta diverso da quello che può essere di Marco Introini, Matteo Cirenei, Giacomo Giannini, Andrea Martiradonna, per citare solo alcuni fotografi contemporanei di architettura.
Alcuni colleghi riescono ad avere uno sguardo più libero.
Ad esempio Thomas Pagani, fotografo di interni che sta riscuotendo molto successo (lavora con Piero Lissoni e ha da poco terminato il catalogo di MDF) secondo me ha una capacità di fare delle inquadrature “armonicamente nitide” che io gli invidio moltissimo. Recentemente ho avuto modo di fargli i complimenti vedendo la sua ennesima pubblicazione su Instagram: gentilmente e umilmente mi ha risposto che i complimenti fatti da me rappresentavano una cosa preziosa, ma in realtà io sono proprio convinto che lui, oltre ad essere più giovane di me, sia anche più bravo di me!
A.C.
Dato che hai già citato alcuni fotografi, proseguiamo in questo ambito: quali sono i fotografi non contemporanei che hai più apprezzato e, se ti vuoi ancora sbilanciare, quali sono quelli contemporanei che apprezzi di più?
S.L.V.
Innanzitutto devo dire che io non nasco professionalmente come fotografo di architettura: inizialmente per me la fotografia era quella del National Geographic e ammiravo i fotografi che gravitavano attorno all’agenzia Magnum Photos, fondata nel secondo dopoguerra da Robert Capa, Henri Cartier-Bresson e altri.
Mentre frequentavo l’Istituto Europeo di Design, a Roma, ho avuto una folgorazione per Richard Avedon, un fotografo ritrattista; avevo riempito la mia casa con foto strappate dal “The New Yorker”, un periodico statunitense cui mi ero abbonato e per il quale Avedon lavorava.
Per la fotografia di architettura non posso non citare nuovamente Gabriele Basilico, che ha proiettato un’ombra lunghissima e del quale io ammiro il lavoro nel suo insieme perché, sensazione personale, le sue foto prese singolarmente, ad eccezione di quelle che riportavano in bianco e nero una Beirut distrutta dai bombardamenti e a quelle avente come tema i porti nordeuropei, non mi hanno mai trasmesso particolari emozioni.
Bernd e Hilla Becher sono stati per me fondamentali: promotori della scuola di Dusseldorf, hanno ispirato fotografi del calibro di Candida Hofer, Thomas Struth, Andreas Gursky, Elger Esser.
L’opera Museum Photographs di Tomas Struth , a cavallo tra gli anni 80 e 90 del secolo scorso, rimane tra le cose più belle che ho visto.
Io ho fotografato molto l’ambiente del teatro, ma non dal fondo della sala come faceva la famiglia romana Le Pera: ho fotografato per anni con la mia compagnia stando in palcoscenico, insieme agli attori, sentendomi parte del movimento drammaturgico. In quel periodo il mercato non voleva quel tipo di fotografia ma per me era l’unico modo interessante.
Il mio idolo per questo genere di fotografia è stato Maurizio Buscarino che ha documentato tutto il teatro di ricerca che si è svolto in Italia, in particolare quello di Kantor tra la fine degli anni 70 e inizi 90.
Tra i fotografi contemporanei, oltre al già citato Thomas Pagani, provo una grande e sincera ammirazione per due miei ex allievi: Luca Rotondo, molto bravo anche nei ritratti, e Davide Monteleone. Davide, con una fama ormai internazionale, fa progetti di lunga durata: l’ultimo si chiama “Sinomocene” ed è un’indagine sull’esportazione della potenza cinese fatta attraverso quel processo chiamato “via della seta”.
Al di fuori della fotografia di architettura mi piace molto il lavoro di Paolo Pellegrin (agenzia Magnum Photos) e tra i “vecchi” mi piaceva moltissimo il lavoro di Ugo Mulas.
A.C.
Non hai citato, tra i fotografi che apprezzi, Steve McCurry, molto famoso anche tra il grande pubblico, che tra l’altro negli ultimi anni ha tenuto numerose mostre in Italia. C’è un motivo particolare?
S.L.V.
In realtà Steve McCurry è stato per me un idolo assoluto. Possiedo un manifesto originale della fotografia della ragazza afgana dagli occhi verdi. È stato un genio della composizione dei colori e del rapporto tra luce e ombra e chiunque ne parli deve ricordare che lui ha lavorato sdraiandosi per terra in tutti i posti dov’è stato, per mesi e mesi. A chi si pone come suo detrattore voglio ricordare che ciascuno di noi prima di poter dire qualcosa su di lui deve analizzare se ha i titoli per farlo. Io su Mc Curry non mi pronuncio. È stato sicuramente un genio fino ad un certo punto della sua carriera poi forse ha sbagliato qualcosa, invecchiando ha cercato di supplire con il digitale, ma lo abbiamo fatto tutti. Il digitale ci consente di non portare ogni volta il peso di 40/60 kg di attrezzatura.
Io stesso penso di essere meno fresco e meno bravo di prima e devo per forza riconoscerlo: ho meno energia e mi sono accorto che prima potevo fare di più e potevo fare di meglio: sono contento di vedere così tanta forza e vitalità nei colleghi più giovani di me.
McCurry non è diverso da noi e funziona così per tutti, in ogni settore, salvo forse Bob Dylan che continua ad essere un genio assoluto. Lo ammiro tantissimo da quando avevo 17 anni e sono uno di quelli che sostiene che il Nobel gli era dovuto.
A.C.
Che rapporto hai con la fotografia in bianco e nero?
S.L.V.
Rispondo raccontando un episodio.
Gianni Berengo Gardin, fotografo e fotoreporter, oggi novantenne, appone un timbro “vera fotografia” dietro ogni stampa che ancora distribuisce: sembra considerare il mondo digitale alla stregua di un diavolo!
Ho avuto modo, con l’occasione di una conferenza a Milano, di chiedergli cosa lo spingesse a parlare ancora di “vera fotografia” quando lavorando col bianco e nero non si può restituire la realtà così come è e non solo perché mancano i colori, che già sarebbe sufficiente a motivare la contestazione, ma per tutto il processo di scelte assolutamente personali del fotografo che anche questa tecnica implica e che influenza i risultati (tipo di pellicola, tipo di filtri a seconda del soggetto, esposizione, sviluppo, chimica delle emulsioni, ecc).
Come si può dire, a fronte di tutto questo, che sia il digitale ad essere una mistificazione?
Berengo Gardin non ha replicato ed alla mia domanda successiva, sul perché continuasse a fotografare in bianco e nero, mi ha risposto che la verità era che per lui è come essere in uno stato di perenne innamoramento nei confronti di una persona: non vedi nient’altro, solo l’oggetto del tuo amore, anche se conosci poi altre persone altrettanto belle e interessanti. In sintesi, le foto in bianco e nero -e io ne ho fatte – per me rappresentano una trasformazione della realtà ma sono anche convinto che ciascuno sceglie in base ai vissuti personali: l’importante è che queste scelte non vengano trasformate in regole in base alle quali giudicare il lavoro degli altri.
A.C.
Che rapporto hai, al di fuori dell’ambito specifico della tua professione, con l’architettura?
S.L.V.
Io adoro aggirarmi in spazi edificati. Ho avuto la fortuna di nascere a Firenze e di vivere con i nonni a Roma. Non nascondo che venire a vivere a Milano dove non c’è orografia, non c’è prospettiva se non all’ interno delle strade, è stato per me fonte di iniziale delusione perché mentre Firenze e Roma sono immerse in una bellezza gratuita, la bellezza di Milano, città bombardata nel periodo di guerra è nascosta, non è omogenea e va ricercata. Sento la mancanza, a Milano, di un elemento urbano come Piazzale Michelangelo o il Gianicolo.
Amo lo spazio urbano, qualsiasi spazio urbano, e quando l’architettura che mi si presenta risuona con me in modo naturale io ne resto affascinato.
E non mi riferisco solo alle città italiane: mi è piaciuto moltissimo anche girare sullo Street di Las Vegas, curiosamente amo moltissimo gli spazi urbani ma sono più bravo nell’immortalare i singoli edifici, forse perché il primo è meno governabile ed occorre probabilmente uno sguardo ed un vissuto diverso dai miei. Occorrono sicuramente sguardi come quelli di Luca Campigotto o Vincenzo Castella.
A.C.
Di te dici: “Sono un fotografo pulito. Amo gli angoli retti, le linee centrali, la simmetria: la mia composizione delinea il mio bisogno di certezza”. Su questa affermazione ci si potrebbe soffermare per ore andando a comprendere ambiti che vanno dalla percezione alla psicologia, ecc. Ma questo approccio non corre il rischio di essere confuso con la scelta di una via “più semplice” per ottenere risultati appaganti?
S.L.V.
I fotografi di architettura si confrontano con spazi simmetrici o asimmetrici. Laddove l’impianto è simmetrico è lo stesso soggetto a raccontarsi, e talvolta con non poche difficoltà, perché ovviamente la distanza a cui si può stare dagli edifici è imposta dal tessuto urbano circostante.
Un fotografo d’architettura non può, in ogni caso, prescindere da una rappresentazione che assecondi l’impianto asimmetrico progettato dall’architetto. Personalmente non ho difficoltà nella rappresentazione di architetture simmetriche; riesco a fotografare bene tutta l’architettura classica perché è “immediata” e la comprendo, ma non definirei questo come una scelta di comodo perché la possibilità di realizzare composizione simmetriche sono veramente poche: si tratta per la maggior parte di realizzare scatti di composizioni accidentali che richiedono un’approfondita ricerca del punto di vista perché da quello si determina tutto l’andamento prospettico che si offre agli spettatori.
Per quanto riguarda l’architettura contemporanea posso dire, ad esempio, che mi trovo molto bene nel fotografare le architetture di Herzog & de Meuron – e non si può parlare in questo caso di impianti strettamente simmetrici- mentre sono in difficoltà, pur apprezzandone ed amandone la libertà espressiva, con le opere di Zaha Hadid e dello Studio che sta seguendo la sua linea progettuale.
A.C.
Citando Zaha Hadid mi hai richiamato alla mente la delusione provata qualche anno fa quando mi sono trovata di fronte all’edificio “Pierre Vives” da lei progettato a Monpellier. Questo sentire non derivava per l’edificio in sè, perfettamente coerente ad uno stile evocativo di forme appartenenti ad ambiti non strettamente architettonici, ma piuttosto per un quasi inesistente rapporto con il contesto che non avevo percepito in questo modo dalle foto realizzate dai tuoi colleghi e pubblicate nel web.
S.L.V.
Noi, come esseri umani, abbiamo un sistema di relazione con l’esterno che è estremamente limitato rispetto alla fotografia; abbiamo sicuramente moltissime emozioni in più derivanti dall’immersione del nostro essere nell’ambiente ma l’occhio è quello che è, ovvero, vediamo in un certo modo e siamo privi di lunghe e corte focali, di angoli di ripresa stretti e larghi, e della capacità di intervenire modificando l’andamento della dinamica prospettica.
Se tu ritornassi a Montpellier a vedere la stessa architettura ma non più con gli occhi bensì attraverso un obiettivo fotografico che quando ti avvicini dilata lo spazio esagerandone le fughe, ti avvicinerai di più a ciò che hai visto attraverso il lavoro dei colleghi fotografi.
Guardando solo con gli occhi saremo sempre in un qualche modo delusi perché la macchina fotografica offre più possibilità e libertà di rappresentazione.
Gli architetti sono interessanti perché progettano “da distante” cioè inventano gli oggetti guardandoli dall’infinito e riproducendone poi l’immagine attraverso planimetrie, prospetti, sezioni. Alla fine, quando sono in possesso di tutti i dati – sintesi di un lavoro, ripeto, che parte da un punto di vista prospettico “collocato all’infinito – restituiscono, sotto forma di render, una rappresentazione della realtà “senza sporco e senza vincoli”.
Con questo tipo di approccio capita che chiedano al fotografo rappresentazioni delle loro opere che sarebbero possibili solo a costo dell’abbattimento degli edifici circostanti!
A.C.
Restando in tema di grandi architetture e del loro rapporto con il contesto, urbano o paesaggistico, cosa ne pensi del
museo Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank O. Gehry e della stazione per i treni ad alta velocità di Reggio Emilia, progettata da Santiago Calatrava?
S.L.V.
Per quanto riguarda il Guggenheim di Bilbao da una parte c’è il fiume quindi il museo non si confronta con nulla, anzi riflette; se lo si guarda invece “di là dal fiume” si impone davanti a noi con alle spalle la città, se ci si avvicina dalla città si hanno dei cannocchiali prospettici attraverso le strade che si percorrono. Intorno al museo sono stati costruiti la biblioteca ed altri edifici che fanno da tessuto interstiziale tra “l’astronave” e la città stratificata. Detto questo, la parte di città prospiciente il Guggenheim non era allora particolarmente bella come invece lo erano altre parti di Bilbao.
Per quanto riguarda la Stazione TAV di Reggio Emilia, invece, per me il suo senso intimo è il rapporto serratissimo tra luce e buio: ogni parte bianca (i setti murari) in realtà è un buio ed ogni vetro è una luce.
Da un punto di vista prospettico rappresenta una miniera di dettagli: la si può prendere da qualunque parte e si hanno le ondulazioni che si sovrappongono ed il rapporto con il cielo.
Ciò detto ritengo che stia bene lì dove è, calata in un contesto in cui non si confronta con nulla e può emergere. Non l’ho mai fotografata ma, potendo, me la immagino affiancata da fari da centomila watt stile Las Vegas che proiettano luce frastagliata verso l’alto oppure immersa nella nebbia, con un effetto fluo.
È un’architettura che crea un rapporto particolare con la luce, un po’ come accade per la chiesa dell’Autostrada del Sole, il San Giovanni Battista di Michelucci, oppure per la cappella Notre Dame de Haut di Le Corbusier.
La stazione progettata da Calatrava da un punto di vista fotografico rappresenta un soggetto molto comodo: difficilmente si può sbagliare negli scatti, soprattutto nei dettagli dei quali si potrebbero fare migliaia di foto sicuramente gradite al grande pubblico.
A.C.
La genesi di “Metroquadro” , quello che tu definisci essere il tuo unico progetto artistico e che è iniziato più di 20 anni fa in modo “apparentemente” casuale con l’occasione di una fermata fuori programma del treno su cui ti trovavi, per certi versi risulta sorprendente. Ma leggendo la tua descrizione del progetto si è portati a pensare che più di casualità si possa parlare dell’esito “finale” di un processo interiore. Ce ne parli?
S.L.V.
Per i fotografi di architettura il rapporto con il dettaglio e con le misure è intenso e stretto. Io ho avuto un nonno appassionato di entomologia che mi faceva notare quanti insetti ci potessero essere in poco spazio: un inaspettato brulichio di vita.
Probabilmente è da qui che è nata la mia attenzione sulla relazione tra “lo spazio e le cose che ci possono stare dentro”.
Un giorno, dal finestrino del treno che mi riportava a Firenze da Roma, ho visto la quantità di rifiuti e di detriti di ogni genere sul rilevato ferroviario e quel ricordo della mia infanzia è riaffiorato come una sorpresa: mi sono ritrovato a pensare a quante cose ci potessero stare in poco spazio.
Dopo le prime prove di composizione, realizzate attraverso l’uso di tubi idraulici con giunti a 90° che potevo montare e smontare a piacimento, mi sono reso conto della necessità di avere una misura “archetipica”: in un negozio di bilance, a Roma, ho trovato gli ultimi 4 metri lineari di legno che riportavano ancora le misure incise e non serigrafate: con un sistema di bulloncini e gallette ho realizzato la cornice del mio “Metroquadro”.
Inizialmente mi figuravo questo progetto fotografico solo in relazione ad elementi di architettura, poi ho scoperto che nello spazio delimitato dai quattro metri lineari mi piaceva mettere altre cose; il punto più distante dall’idea iniziale, sulla spinta di sollecitazioni esterne, è stata la composizione di un “nudo”.
Sicuramente “Metroquadro” è un punto di arrivo di un qualcosa che era già dentro di me: sono una persona che ha la necessità di proteggersi con la razionalità e l’ordine e che ricerca la tranquillità che le cose “ben sistemate” possono trasmettere.
Di fatto Metroquadro ha rappresentato una sorta di linguaggio, una forma espressiva che raccontava molto di me e che ho utilizzato per circa 8 anni in modo episodico e poi si è conclusa.
A.C.
Vuoi spiegare a noi profani cosa significa essere un “Nikonista”?
S.L.V.
Essere un Nikonista vuol dire aver sposato una causa ed io sono uno che “ha sposato la causa di non sposare le cause”.
Mi spiego: la scelta di una fotocamera piuttosto che un’altra dipende ovviamente dal mondo professionale in cui si è calati.
Un fotografo d’architettura avrà difficoltà ad usare un sistema Laika che va benissimo invece se si deve avere una fotocamera da estrarre all’occorrenza, ad esempio, per un reportage.
La mia prima macchina, ricevuta nel 1981, era una Nikon, che allora era considerata il meglio, Leica e Contax escluse.
Successivamente, fino all’arrivo del digitale, non ho mai avuto bisogno di cambiare, anche perché il sistema Nikon era amplissimo e aveva lenti adatte anche al mio lavoro. Si erano affiancati il medio e il grande formato, semmai: Hasselblad, Toyo, Sinar.
Con il passaggio al digitale per un certo periodo Nikon ha penalizzato la fotografia di architettura per la mancata produzione di sensori grandi, cui ha sopperito solo in un secondo momento con l’immissione sul mercato della D700 e D3, macchine con sensore 24×36.
Ora vengono introdotti nuovi prodotti nel campo della fotografia digitale praticamente ogni sei mesi: una volta può essere Nikon, un’altra Canon e un’altra ancora Sony. Le caratteristiche peculiari di ciascun prodotto spingono a scegliere un’azienda piuttosto che un’altra a seconda del lavoro che si deve svolgere (filmati, fotografie d’architettura, still life, ecc.).
Con Nikon ho un rapporto privilegiato: per loro scrivo articoli di settore e ho tenuto per tre anni conferenze presso le sedi dei vari Ordini italiani degli Architetti.
Col tempo questo rapporto è diventato anche d’affezione: quando mi è stata regalata la mia prima fotocamera il mondo della fotografia apparteneva a Nikon.
A.C.
La fotografia monopolizza anche il tuo tempo libero oppure lascia spazio anche per altre attività ed interessi?
S.L.V.
Il tempo che non mi vede occupato col lavoro lo dedico alla famiglia: ho due figli e una compagna. Poi, aggiungo che sono pigro per vocazione, quindi per me, al di fuori degli impegni lavorativi e familiari, l’ideale è stare una giornata a leggere, all’ombra, senza fare null’altro.
A.C.
Quali libri leggi Saverio?
S.L.V.
Nel campo della narrativa leggo di tutto e soprattutto di notte, utilizzando il lettore di e-book che trovo molto comodo.
Col tempo ho acquisito la consapevolezza che le semplificazioni sono importanti: avevo un mobile pieno di libri di ogni genere, li ho dati via in gran parte, anche quelli bellissimi di arte: avevo bisogno di spazio e sapevo che non li avrei mai più riaperti.
In questo periodo sto leggendo tutto Murakami perché avevo letto solo Norwegian Wood, tanto tempo fa, e 1Q84.
Leggo sempre, tutti i giorni. I miei libri preferiti però arrivano da un periodo in cui le mie emozioni erano più vive e non erano state messe “sotto sequestro” a tempo indeterminato dalle relazioni parentali. Quindi i miei libri importanti appartengono tutti al periodo tra i 17 ed i 30 anni, così come tutte le amicizie importanti sono di vecchia data, perché avevo emozioni a profusione e i libri mi stravolgevano.
Tra i miei preferiti c’è ad esempio “Le idi di marzo” di Thornton Wilder, “il Grande Gatsby” di Filtzgerald, “Cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez, “Il tropico del cancro “di Henry Miller, “Il processo” di Kafka: tutti libri dotati dei finali più belli del mondo!
E ancora “Anna Karenina”, molto romantico, il quartetto di Alessandria di Durrell (Justine, Balthasar, Mountolive, Clea), “Il giuoco delle perle di vetro” ,“Il lupo della steppa”, “Demian” e “Narciso e Boccadoro” di Herman Hesse.
La lettura a 17 anni d’età di “Porci con le ali” è stata fondamentale per la mia esistenza: ero allora coetaneo dei protagonisti, Rocco e Antonia, che altro non erano che gli pseudonimi degli autori Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera.
Tra i libri “più mentali” che ho letto negli ultimi 20 anni ci sono quelli di Philip Roth (“Pastorale americana”, “La macchia umana”, “Il complotto contro l’America”) mentre trovo che Mordecai Richler sia stato un genio del sarcasmo (“La versione di Barney”).
Adesso vorrei riprendere il ciclo di Malaussène di Pennac ma in lingua originale per fare esercizio col francese.
A.C.
Un’ultima domanda, visto che hai introdotto il tema delle lingue straniere: perché i testi del tuo sito web sono esclusivamente in inglese?
S.L.V.
Per me si tratta di una semplificazione: ho fatto realizzare il sito web nel periodo che precedeva Expo Italia 2015, durante il quale ho lavorato per i padiglioni degli Stati Uniti, della Russia, del Vietnam… Con questo carattere di internazionalità, parlando molto bene la lingua inglese e volendo soprattutto pubblicare, com’è logico che sia, soprattutto fotografie, ho pensato fosse la scelta ideale.
Oltretutto il sito dovrà essere aggiornato perché ho pubblicato solo una parte di tutta l’architettura che ho fotografato. Sono scatti che ho realizzato tra il 2012 e il 2013 per una collana del gruppo editoriale francese Hachette; ho passato un anno in giro a fotografare architetture di tutti i continenti.
s f o g l i a l a g a l l e r i a
a cura di
Annamaria Cassani
immagini
Saverio Lombardi Vallauri