Alessandra Pasqua: quell’incontenibile desiderio di conoscenza.
a cura di Annamaria Cassani
L’incontro con l’artista romana che ha un’anima da ingegnere.
Se nel corso dei primi contatti telefonici si era affacciato un blando sospetto, al termine dell’incontro online il presentimento si era trasformato in certezza: Alessandra Pasqua è un fiume in piena che travolge senza distruggere, riempie e rende fertile il pensiero.
Le riposte alle domande arrivano solo alla fine di lunghi (e coinvolgenti) racconti, premesse indispensabili per comprendere gli aspetti poliedrici della realtà in cui si muove.
Parla con un vivace intercalare capitolino, ma pensa in inglese.
Alessandra Pasqua, vive e lavora a Roma. Alla formazione accademica come Ingegnere Edile ha affiancato corsi di pittura, oreficeria e scultura. Ha collaborato con prestigiosi studi di progettazione, tra i più noti a livello internazionale, e si è occupata di Design Management e Project Management.
Da oltre un decennio si dedica alla ricerca artistica, una passione che coltiva sin dall’infanzia, esplorando le possibilità espressive offerte da pittura e scultura. Il focus della sua indagine verte sull’identità dell’essere umano con le sue passioni, debolezze e speranze.
Presente all’ultima edizione del Fuorisalone milanese con la collezione Lunar e la più recente scultura “Bride of Quietness”, sarà in mostra a Londra nel prossimo ottobre con una selezione delle sue opere, in occasione delle fiere di arte e design contemporanei Frieze London e PAD London.
Annamaria Cassani
Alessandra, qualche mese fa il magazine Artribune, nella versione on line, ha dedicato un articolo allo Studio che hai fondato. Cito testualmente il titolo: “Wanderart a Roma. L’atelier che supera il confine tra arte e design”. Il confine tra arte e design è una grande tematica dai contorni sfumati, molto probabilmente perché le definizioni stesse dei due ambiti non sono mai state nette e precise. È il collectible design l’anello di congiunzione tra i due mondi?
Alessandra Pasqua
Per la mia esperienza posso dire che il collectible design può attualmente essere considerato un ponte tra arte e design, permettendo a queste due discipline di intersecarsi e arricchirsi reciprocamente. Tuttavia, ritengo che questa risposta non sia da ritenersi definitiva, poiché la convergenza tra arte e design è un processo in continua evoluzione.
Per me l’arte è sinonimo di “libertà senza confini”,
una forma di espressione libera da vincoli, un ambito dove è possibile sperimentare (e anche fallire!) senza restrizioni. Nel collectible design, invece, si deve contenere la creatività entro confini funzionali, in cui la componente scultorea può anche essere spinta al limite ma non andare totalmente a discapito dell’usabilità dell’oggetto.
Va da sé che nel progettare, ad esempio, un tavolino si debbano considerare sia un’estetica scultorea che una pratica funzionalità, se non altro per garantire una superficie stabile a sostegno degli oggetti. Tuttavia, la componente artistica rimane preponderante.
Ho constatato che nel panorama internazionale la distinzione tra arte e design è meno rigida rispetto all’Italia. All’estero è comune trovare artisti che si dedicano al design e designer che esplorano l’arte, creando una convergenza tra le due discipline. In Italia, invece, si tende ancora a mantenere una separazione tra i due ruoli.
A.C.
Ho trovato molto interessanti i contenuti testuali presenti sui due siti web di Wanderart: ogni frase è un invito alla riflessione su argomenti importanti della nostra contemporaneità (etica della responsabilità, calcolo della carbon footprint dei processi di fusione, riciclo dei materiali, …) non unicamente collegabili al mondo dell’arte. Qual è l’essenza di Wanderart?
A.P.
Wanderart nasce dall’idea di esplorare senza confini definiti, incarnata dal verbo inglese “to wander” che significa “girovagare”.
Il nome riflette l’essenza del progetto: una ricerca artistica che si muove liberamente attraverso vari temi e materiali, senza legarsi a un’unica identità (la mia). Questo approccio consente di offrire la mia ricerca al pubblico: un viaggio fatto di continue scoperte che mi piace condividere con chiunque sia interessato.
Ad esempio, attualmente sto collaborando con una studentessa che sta conducendo una ricerca sui materiali nell’arte – e mi dedicherà un capitolo della sua tesi – e sto fornendo consulenza ad una dottoranda che sta conducendo uno studio sul micelio, un materiale organico di cui ultimamente io sto esplorando potenzialità e limiti e che coltivo nel mio studio seguendone gli “sviluppi”, talvolta inaspettati e sorprendenti.
A.C.
Parliamo degli oggetti di design firmati Wanderart: trait d’union della collezione Lunar è un trattamento molto materico delle superfici. Come nasce questo progetto?
A.P.
Sono da sempre affascinata dai paesaggi lunari e da quelli che immagino appartenere ad altri pianeti, complice, probabilmente, la mia passione per i film di genere fantascientifico.
In particolare, sono interessata ad osservare le trasformazioni che le superfici naturali subiscono sotto l’azione di fenomeni geologici. Se avessimo la possibilità di osservarle da una prospettiva distante, magari tramite immagini satellitari, potremmo cogliere dettagli come le increspature e le asperità causate dal movimento delle placche tettoniche o dall’accumulo graduale di detriti. Questi fenomeni generano pattern ricorrenti, segni distintivi delle forze naturali in gioco.
Con Lunar ho voluto ricercare e replicare archetipi di paesaggi naturali e le loro metamorfosi, attraverso un’operazione di mimesi.
Va da sé che nel progettare, ad esempio, un tavolino si debbano considerare sia un’estetica scultorea che una pratica funzionalità, se non altro per garantire una superficie stabile a sostegno degli oggetti. Tuttavia, la componente artistica rimane preponderante.
Ho constatato che nel panorama internazionale la distinzione tra arte e design è meno rigida rispetto all’Italia. All’estero è comune trovare artisti che si dedicano al design e designer che esplorano l’arte, creando una convergenza tra le due discipline. In Italia, invece, si tende ancora a mantenere una separazione tra i due ruoli.
A.C.
Ho trovato molto interessanti i contenuti testuali presenti sui due siti web di Wanderart: ogni frase è un invito alla riflessione su argomenti importanti della nostra contemporaneità (etica della responsabilità, calcolo della carbon footprint dei processi di fusione, riciclo dei materiali, …) non unicamente collegabili al mondo dell’arte. Qual è l’essenza di Wanderart?
A.P.
Wanderart nasce dall’idea di esplorare senza confini definiti, incarnata dal verbo inglese “to wander” che significa “girovagare”.
Il nome riflette l’essenza del progetto: una ricerca artistica che si muove liberamente attraverso vari temi e materiali, senza legarsi a un’unica identità (la mia). Questo approccio consente di offrire la mia ricerca al pubblico: un viaggio fatto di continue scoperte che mi piace condividere con chiunque sia interessato.
Ad esempio, attualmente sto collaborando con una studentessa che sta conducendo una ricerca sui materiali nell’arte – e mi dedicherà un capitolo della sua tesi – e sto fornendo consulenza ad una dottoranda che sta conducendo uno studio sul micelio, un materiale organico di cui ultimamente io sto esplorando potenzialità e limiti e che coltivo nel mio studio seguendone gli “sviluppi”, talvolta inaspettati e sorprendenti.
A.C.
Parliamo degli oggetti di design firmati Wanderart: trait d’union della collezione Lunar è un trattamento molto materico delle superfici. Come nasce questo progetto?
A.P.
Sono da sempre affascinata dai paesaggi lunari e da quelli che immagino appartenere ad altri pianeti, complice, probabilmente, la mia passione per i film di genere fantascientifico.
In particolare, sono interessata ad osservare le trasformazioni che le superfici naturali subiscono sotto l’azione di fenomeni geologici. Se avessimo la possibilità di osservarle da una prospettiva distante, magari tramite immagini satellitari, potremmo cogliere dettagli come le increspature e le asperità causate dal movimento delle placche tettoniche o dall’accumulo graduale di detriti. Questi fenomeni generano pattern ricorrenti, segni distintivi delle forze naturali in gioco.
Con Lunar ho voluto ricercare e replicare archetipi di paesaggi naturali e le loro metamorfosi, attraverso un’operazione di mimesi.
Il progetto si è concretizzato anche a seguito delle suggestioni derivanti dall’osservare la bellezza dei fondi solidificati dei crogioli presenti nella fonderia cui mi affidavo per i miei lavori. Nella consapevolezza di non poter eguagliare i processi naturali, ho cercato di replicare a mano quelle superfici con vari materiali e poi con altre tecniche per le parti emergenti degli oggetti appartenenti alla collezione.
A.C.
Quanto sono importanti gli “inciampi” nel tuo lavoro che, cito testualmente dal sito web di Wanderart, ha alla base “un processo creativo non orientato verso obiettivi prestabiliti”?
A.P.
Sebbene io sia estremamente strutturata e meticolosa nel lavoro di progettazione, quando mi dedico all’arte adotto un approccio radicalmente diverso:
non sono interessata a seguire schemi predeterminati o rigide sequenze di azioni perché la libertà di esplorare senza restrizioni è per me un principio imprescindibile.
L’accettazione della possibilità di inciampare lungo il percorso, cioè di commettere errori anche irreparabili, è fondamentale perché mi consente di abbracciare completamente il flusso creativo: senza questa libertà, rischierei di bloccare il processo artistico fin dall’inizio.
L’inciampo, l’evento imprevedibile, mi consente non solo di esplorare sentieri nei quali probabilmente non mi sarei mai imbattuta ma, talvolta, anche di fare profonde riflessioni che coinvolgono gli aspetti più profondi del mio essere.
Faccio un esempio.
Come ho già detto, da qualche anno sto lavorando sul micelio che coltivo nel mio studio, ovviamente senza seguire alla perfezione la prassi consigliata! Al rientro in laboratorio dopo un periodo di assenza, mi sono letteralmente “spaventata a morte” nel vedere come il micelio si era sviluppato dando origine ad un fungo grandissimo che aveva riempito di spore la parete retrostante.
La visione di questo essere ‘alieno’ che si era riprodotto in un modo incontrollato e imprevedibile mi ha spinto a fare una seria riflessione sulle mie paure inconsce che, a sua volta, mi ha fornito lo spunto per avviare un nuovo filone di indagine sugli oggetti apotropaici.
Se vogliamo, anche il mio incontro con l’Intelligenza Artificiale si può considerare alla stregua di un inciampo: i risultati che ho ottenuto, qualche mese fa, dall’elaborazione dei miei archetipi da parte di un software di tipo generativo è stato qualcosa in cui non mi ci sono per niente riconosciuta: mai e poi mai avrei potuto realizzare cose simili!
MA…, ancora una volta, l’inciampo mi ha offerto spunti per l’avvio di lavori che già mi frullavano in testa. Nello specifico, la prima elaborazione della mia ultima scultura, Bride of Quietness, è stata effettuata tramite AI.
Quindi, per rispondere finalmente alla tua domanda, ritengo che gli “inciampi” siano parte integrante della prassi codificata che caratterizza qualsiasi attività di progettazione e che inizia con la produzione di numerosi sketch, la maggior parte dei quali verrà scartata senza escludere, però, la possibilità che di essi si possa conservare qualche dettaglio che potrebbe tornare utile in seguito.
A.C.
Mi aggancio all’ultima parte della risposta precedente per chiederti se esiste, secondo te, un modo virtuoso per utilizzare l’Intelligenza Artificiale.
A.P.
Premessa: io non disdegno affatto la tecnologia, anzi, ne sono affascinata e ho voluto esplorarne le potenzialità creando anche NFT e una galleria virtuale su SPATIAL [piattaforma di realtà virtuale, n.d.r.].
Nella mia pratica artistica l’uso dell’intelligenza artificiale è paragonabile a quello che fanno già molti progettisti che sostituiscono il primo round di bozze stese a mano con output generati dall’AI.
Approcci di questo tipo non sostituiscono le intuizioni umane, ma offrono una vasta gamma di suggestioni e stimoli visivi, anche molto elementari, che possono essere incorporati nel processo creativo come punto di partenza per ulteriori sviluppi.
Non voglio entrare adesso in un discorso etico cui potrebbe portare la riflessione su un uso virtuoso dell’AI: in questo momento sull’argomento mi preoccupa quella che sembra essere l’impossibilità di esercitare da parte dell’uomo un totale controllo sui processi di apprendimento dell’AI, quegli stessi processi che la portano a produrre alcuni risultati piuttosto che altri a partire dagli input immessi.
A.C.
Parliamo del tuo percorso formativo: hai conseguito una laurea in Ingegneria Edile, seguito corsi di pittura a Londra e di oreficeria a Firenze. Questo percorso sembra alquanto atipico. Puoi raccontarci di più sulla natura di queste scelte?
A.P.
Ho sempre nutrito una profonda passione per l’arte che esprimevo, sin dall’ infanzia, nella realizzazione di piccole sculture. Tuttavia, pur avendo un’anima artistica e compositiva, ho seguito un percorso di studi classici, seguiti da una laurea in Ingegneria Edile perché mi sembrava potesse soddisfare maggiormente la mia esigenza di allora: avere una solida formazione per progettare con chiarezza e consapevolezza.
Dopo la laurea, mi sono occupata per parecchi anni di progettazione (Design Management e Project Management) e ho diretto uno studio specializzato nel design per gli interni degli elicotteri, un’esperienza che mi ha consentito di venire a contatto con molte tecnologie innovative.
Nel periodo in cui risiedevo a Londra, ho frequentato corsi di pittura alla Central Saint Martins, approfondendo lo studio dell’anatomia e delle tecniche pittoriche. Nonostante la mia passione per questa forma d’arte, che permane più viva che mai, sentivo che non soddisfaceva appieno le mie esigenze di tipo espressivo più orientate alla “tridimensionalità” e mi sono, pertanto, avvicinata alla pratica scultorea.
La mia ricerca in questo mondo è iniziata frequentando corsi di oreficeria e, per un periodo, è proseguita a fianco di uno zio scultore, appartenente alla scuola romana, che mi ha introdotto alle tecniche della cera persa, premettendomi di affinare ulteriormente le competenze già acquisite.
Ho sempre avuto un’immagine di ingegnere atipico:
non mi sono mai identificata come esperta in un unico campo, ma ho sempre sentito un irresistibile bisogno creativo, alimentato dal mio desiderio incontenibile di conoscenza e sperimentazione. Ho la necessità di manifestare la mia creatività in molteplici forme, di esplorare e concretizzare il più possibile.
È questa la mia natura!
A.C.
Durante la scorsa Design Week milanese eri presente a Palazzo Litta con l’esposizione della collezione Lunar e con la tua ultima scultura, Bride of Quietness. Com’è andata?
A.P.
Sono molto soddisfatta della visibilità che l’evento ha dato al mio lavoro e molto colpita dal grande flusso di persone disposte a stare per ore pazientemente in coda prima di poter entrare in Palazzo Litta.
È stato coinvolgente osservare come ciascuna persona abbia dato la propria interpretazione della mia scultura. Come spesso accade con le opere non strettamente figurative, ognuno vi ha visto qualcosa di diverso, il che le rende ancora più affascinanti. Ad esempio, una curatrice ha individuato in “Bride of Quietness” una figura antropomorfa con radici profondamente ancorate nel terreno, che cerca di emergere alla stregua della punta di un iceberg.
In realtà, con questa scultura dalle forme aggrovigliate con le quali si può interagire attraversandola, ho inteso rappresentare il legame con il mondo spirituale appartenente al passato più remoto, un tentativo di ri-connessione con il nostro DNA ancestrale cioè con quella parte di istinti primordiali che abbiamo smarrito, ma che ancora sopravvive nelle culture tribali.
A.C.
In occasione del nostro primo contato telefonico avevi accennato alla possibilità di partecipazione ad importanti eventi londinesi nel prossimo ottobre. Si è concretizzata?
A.P.
Si, attraverso Marion Friedman, una gallerista che si occupa di collectible e opera tra Londra e Città del Messico, sarò presente con le mie opere in uno spazio pop-up in occasione di Frieze London e di PAD London, due fiere che si occupano rispettivamente di arte contemporanea e di design contemporaneo e del XX secolo.
A.C.
Sul tuo sito web personale, dopo l’immagina della scultura di un gorilla urlante che offre un forte impatto emotivo, compare un testo in inglese che contiene parole quali “rabbia”, “dolore” e “tristezza. Significa che il tuo è un lavoro di trasformazione di questi sentimenti molto umani?
A.P.
Ho scritto questo “haiku” qualche anno fa, quando ero alle prese con la serie dei “Tombolini di dolore”, figure antropomorfe, a volte immaginate come feti, stretti da bende o corde che, nell’atto di contorcersi, esprimono sofferenza e dolore.
Con questa serie ho voluto narrare il dolore umano,
rendere visibile la sofferenza che ciascuno porta dentro di sé tramite protrusioni che emergono dalla superficie, simili a tumori.
Come per ogni artista, la mia ricerca si è evoluta nel tempo, ma il tema centrale rimane sempre l’esplorazione dei dolori e dei mali dell’umanità. Negli ultimi anni, ad esempio, ho approfondito l’argomento dell’ “inner child” e la mia ricerca, certamente non scientifica, esplora la tematica attraverso oggetti tridimensionali per mezzo dei quali cerco di oggettivizzare il dolore umano, compreso il mio.
La “rabbia” che provo, ad esempio, nel vivere in una società consumistica si riflettono nelle mie opere ed è proprio attraverso di esse che cerco di evidenziare e criticare gli aspetti dannosi della nostra cultura occidentale.
A.C.
Penso che provare rabbia per la nostra cultura occidentale legata a un iper-capitalismo che cerca in ogni modo di indurci al consumo (pratica su cui si regge il sistema) significhi aver raggiunto un certo grado di consapevolezza. Per quella che è la mia esperienza, però, mi viene da chiederti se questa presa di coscienza non ti faccia sentire più isolata, al limite di una sensazione di frustrante impotenza.
A.P.
No, al contrario! Dopo aver preso consapevolezza io mi sono sentita migliorata e sono passata all’azione. Riconosco la difficoltà dell’agire, ma penso che ne valga la pena.
Certamente mi indigna pensare che mentre io cerco di evitare il packaging alimentare in plastica, solo per fare un esempio, le grandi corporation continuano a inquinare enormemente. Anche se il mio sforzo può apparire ridicolo, io continuo con determinazione e non mi arrendo.
Ho fondato Wanderart anche per condividere queste tematiche, perché una volta che si acquisisce coscienza viene naturale cercare persone con cui fare “rete” e che, magari, perché avviate da più tempo su questo percorso, possono rappresentare straordinarie fonti di ispirazione.
a cura di
Annamaria Cassani
Alessandra Pasqua
apasqua.painter@gmail.com
@pasquaalessandra
s f o g l i a l a g a l l e r i a