Può un’idea diventare prodotto?
Una conversazione sul marketing della creatività.
Come farsi venire un’idea? Può bastare una bella intuizione? E poi, è questione di talento personale oppure esistono altri fattori in grado di sollecitare l’ispirazione? Potrebbe oggi essere sufficiente, per un’azienda, puntare sull’innovazione e, solo per questo, considerarla fattore vincente?
La risposta è probabilmente scontata: non basta la sola idea, per quanto ottima, a diventare “prodotto”. Occorre affidarsi ad un percorso strutturato per non perdersi in pensieri astrusi, lambicchi mentali, autocelebrazioni; oggetti forzatamente originali, artificialmente estetizzanti e infine inutili perché un’azienda decida di produrli e introdurli sul mercato.
Non c’è alternativa, occorre stimolare la creatività ma, soprattutto, essere in grado di farla rientrare in un itinerario concreto di “realizzazione del prodotto”, sia esso oggetto fisico, sia come oggetto aspirazionale, del desiderio.
Solo in questo modo l’azienda può scorgervi le potenzialità rappresentate dalla novità e, tramite una precisa pianificazione di marketing, può investire le sue risorse.
Quindi è fondamentale generare nuove idee e riconoscere le opportunità, proporre i prodotti/oggetti al mercato, rimuovere i blocchi mentali alla creatività allineandola ai desideri degli acquirenti, sollecitare il brainstorming con i gruppi di lavoro e, infine, creare una “cultura” dell’innovazione.
In un mercato altamente competitivo com’è quello a cui quotidianamente assistiamo, dove una pletora di oggetti/prodotti (o delle loro buone copie) soddisfano ogni nostra necessità o sfizio (per ogni fascia di prezzo), non si può che distinguersi con l’unicità dello scatto creativo.
In un’economia di mercato è da sempre così ma, oggi, è esponenzialmente più defatigante e complicato scansare il déjà vu e inventarsi una nuova strada.
Tuttavia perdurano due correnti di pensiero: l’una che s’appoggia alla confortevole filosofia della “squadra che vince non si cambia”, e che perciò vede l’azienda continuare felicemente a realizzare, gestire, vendere i prodotti come ha sempre fatto.
L’altra strada è riassunta nell’espressione marketing oriented: i prodotti/oggetti devono essere immessi sul mercato solo se rappresentano un’autentica offerta di valore, se sono in qualche modo differenti.
E, va da sé, che per essere tali devono contenere una certa dose (una buona dose) di novità, perciò di creatività.
Se ne deduce l’esito: nel primo caso ci si deve augurare che sulla scena non si presenti un concorrente capace di creare un’alternativa a quel prodotto, oppure sperare che i tempi di reazione per allestire un’eventuale controffensiva non siano biblici (e in linea con esiti sostenibili).
L’altra, differente, visione reagisce agli stimoli che provengono dai consumatori e dai loro bisogni o sfizi “confezionando” un bene che possiede gli atout per essere considerato interessante.
Il percorso della creatività, bisogna ammetterlo, non è facile e, circostanza ancor più invidiabile, lo sforzo di chi concepisce un nuovo prodotto duetta con una magistrale facoltà di chiaroveggenza: i bisogni dei consumatori sono il più delle volte inconsci, non sappiamo di averli fino a che qualcuno non ci presenta il nuovo oggetto davanti agli occhi.
Non è per forza obbligatorio creare un prodotto/oggetto totalmente nuovo, mai visto prima. Tutt’altro. Ce lo si può augurare, naturalmente, ma non è imprescindibile.
Esiste però una terza via: è la più utilmente frequentata e oltremodo invidiabile. Riferisce dell’abilità, capacità e genialità di restituire una luce speciale a qualcosa che si era spento:
riscrivere il prodotto, reinterpretarlo, assegnargli nuove funzioni, caratteristiche, decori, forme, finiture o estetica.
Un esempio per tutti: con l’avvento dello street wear come contemporanea modalità di vestire, una tuta “griffata”, oggi, non è più (solo) un capo d’abbigliamento sportivo bensì un altro modo d’intendere quel genere di vestiario. Il prodotto è sempre lo stesso ma la funzione no, anzi se ne sono aggiunte di nuove. Lo styling recepisce, sì, le tendenze e i nuovi materiali ma è cambiato l’utilizzo della tuta, ciò ch’essa rappresenta nel nostro guardaroba; fa breccia il desiderio di mostrarsi in un determinato modo e, chi si presenta con la tuta, dichiara anche una volontà d’emulazione, magari sollecitata da qualche influencer.
L’attuale, felice destino di certi successi musicali (cover) di un passato più o meno recente ribadiscono il concetto: non si scrive un nuovo “pezzo”, si reinventa, si reinterpreta, si rimaneggia, s’arricchisce di nuove sonorità o se ne modifica il ritmo dell’esecuzione, se ne fa un duetto (featuring).
E’ la terza via, è l’alternativa alla novità assoluta. Ma altrettanto nobile: per dedizione da parte dell’ “inventore”, per ingegno e fatica, per istrionismo, per capacità di scansare il sodalizio con la consuetudine.
In questo caso la novità sta in una “modifica” (piccola o grande) che l’oggetto esistente riceve e che è in grado di proiettarlo verso usi alternativi e quindi a nuovi consumatori.
I prodotti creativi presentano delle sfide peculiari per il marketing in quanto sintesi di funzione, di rappresentazione, di immaginario, di contenuto simbolico. Peraltro, oggi, il prodotto “nudo e crudo” dovrà essere supportato oltre che dall’abituale comunicazione anche dall’irrinunciabile effetto experience.
Alcune idee lavorano nell’ombra per poi manifestarsi come intuizioni fulminanti.
Sono a “rilascio lento”, come certi medicinali.
Hanno ragione i professionisti che sono comparsi finora su queste nostre pagine: progettare, occuparsi di design, oggi, non può essere un’attività. Deve essere un pensiero, una riflessione, contenere quella sensibilità che un algoritmo non può conoscere e non sa come riprodurre. E che solo la lentezza può conferirgli.
Inseguire la produzione e il mercato, per quanto doveroso per la sopravvivenza delle aziende, non dovrebbe snaturare il valore del gesto,