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Paesaggistica

Fino all’ultimo respiro

Chi sono e a che cosa servono gli alberi monumentali

Avete presente la sfrontatezza di quel ragazzaccio di Jean Paul Belmondo nel film francese “À bout de souffle”? Anche noi, in Italia, possiamo vantare ragazzacci sfrontati che attraversano la vita a muso duro. Non hanno timore di tempeste, canicola, umidità e ogni altro eccesso climatico (anche di quelli recenti e cattivi), come se lo scopo unico fosse, appunto, vivere inarrestabilmente.
I nostri ragazzacci, però, molto più furbamente di Belmondo nel film, si assicurano una vita lunghissima, proprio perché scelgono di piegarsi per non spezzarsi e affrontano quel che capita negli anni con una dose molto robusta di autoconservazione. Questa invidiabile capacità di cadere e rialzarsi si chiama scientificamente resilienza. Parola abusata e detestata, ma anche l’unica per definire

la grande capacità che hanno gli alberi monumentali – perché di questi ragazzacci stiamo parlando – di sopravvivere a tutte le perturbazioni a cui la vita li sottopone.

In un primo Elenco nazionale degli alberi monumentali (che esiste dal 2017 grazie al lavoro di Stato, Regioni, Comuni e altre istituzioni) si contano 2400 esemplari. Inutile dire che questo elenco è solo destinato ad allungarsi, perché l’attenzione verso gli alberi monumentali è sempre più alta e oggi è normata dalla legge 10/2013. A dire la verità, si parlava già di tutela degli alberi nella legge 1089/1939 e la nostra normativa ha affrontato su questo argomento un percorso molto articolato. L’excursus sulla definizione “alberi monumentali”, in molta sintesi, è piuttosto significativo. Perché inizia dalla definizione di “non comune bellezza”, passa per il vincolo paesaggistico, per l’importanza che questi alberi hanno per l’ambiente e il territorio e, dal 2008, permette agli alberi monumentali di assurgere a “beni paesaggistici”.

I ragazzacci impavidi entrano a fare parte del patrimonio culturale italiano quanto il Colosseo, tanto per dirne uno.

E così questi monumenti naturali vengono equiparati ai monumenti umani per importanza e per urgenza di conservazione.
Nell’Elenco nazionale sono stati utilizzati diversi criteri di attribuzione della monumentalità e non tutti si ritrovano in ogni esemplare, perché la valutazione è faccenda complessa, oltre che affascinante. Di solito si pensa che un albero si definisca monumentale per l’età molto avanzata e per la conseguente dimensione maestosa, come accade, per esempio, per il Castagno dei Cento Cavalli nel Parco dell’Etna, oppure per il Tasso di Fonte Avellana nella provincia Di Pesaro-Urbino.

Si tratta di stupendi giganti d’età e questo è, in effetti, il criterio più utilizzato.
Al Fico magnolioide di via Notarbartolo a Palermo, però, sono attribuite altre caratteristiche. L’albero non è tanto maestoso per l’aspetto, quanto per la sua valenza storica e culturale che gli deriva dall’essere diventato uno dei simboli della lotta alla mafia.
La forma e il portamento sono un altro criterio di valutazione, così come la rarità botanica e il pregio paesaggistico.
A proposito di pregio paesaggistico, che altro si può dire di quel punto della Val d’Orcia, in Toscana, in cui la Cassia da statale si trasforma in un quadro che il mondo intero ha negli occhi? Compare la collina dei Cipressi e le parole non servono più.

Anche l’architettura vegetale è un criterio e fa riferimento alla stupefacente progettazione naturale che può o meno dialogare e integrarsi con un edificio. Io penso alla Sughera di Mores in provincia di Sassari, oppure alla Quercia delle streghe di Capannori in provincia di Lucca, due piante isolate che bastano a sé stesse, grazie alla loro commovente e architettonica bellezza.

Il criterio di attribuzione della monumentalità che ho lasciato per ultimo è il “valore ecologico”, definito da un decreto legge del 2014 (la data così recente ci fa capire perché non abbiamo molto considerato l’importanza di questo aspetto fino ad ora).
Questi ragazzacci dall’eterna voglia di vivere sono molto generosi non solo perché ammantano di meraviglia il nostro territorio, ma anche perché rappresentano un rifugio perfetto, in certi casi un vero e proprio habitat, per diversi animali. Le cavità vuote e quelle piene d’acqua, la corteccia sollevata, le branche e tutti i segni della senescenza sono luoghi preziosi per ospitare altre vite.
Questo atto di generosità è ben spiegato dall’Olivone di Bucine, in provincia di Arezzo. Vi immaginate quanti piccoli animali possono vivere al meglio negli anfratti del tronco scultoreo di questo Ulivo?

Di recente, ai giardini Indro Montanelli a Milano, sono stati avviati nuovi studi universitari che rilevano, durante l’anno, tutti gli organismi che vivono nella chioma di alcune piante secolari (insetti, piccoli mammiferi, uccelli,…). Per farla molto breve, si cerca di capire quale biodiversità supporti ogni singolo albero. Chi ci vive sempre? Chi ci trascorre alcune stagioni? Chi usa le cavità piene d’acqua per dissetarsi? Chi usa le cavità vuote per ripararsi dal grande caldo milanese? E così via.

Le molte risposte fornite da questi nuovi studi saranno fondamentali per la scienza, ma anche per chi materialmente dovrà conservare e curare le piante

(quanto e come potare, come consolidare,…).

Attendiamo con curiosità gli sviluppi.

I nostri ragazzacci monumentali, pronti a vivere fino all’ultimo respiro, ci stanno facendo capire in tutti i modi che il loro valore non è solo paesaggistico, ma anche fortemente legato alla conservazione della biodiversità. Diciamolo chiaramente, piccoli alberi appena piantati non offrono lo stesso “servizio ecologico” che offre un albero monumentale o un grande albero adulto sano e a pieno sviluppo. Le chiome ombrose e imponenti delle alberature permettono, tanto per fare un esempio, di abbassare la temperatura al suolo e di mantenere zone di maggiore umidità in grado di contrastare le isole di calore.

Se conserviamo i microhabitat che creano i grandi alberi e gli alberi monumentali, conserviamo l’habitat del quale abbiamo bisogno tutti.

Prima di piantare millemila giovani piante, urge preservare quelle che già ci sono. Dobbiamo smettere di piantare alberi che crescono stentatamente per vent’anni (perché non li curiamo), tanto sappiamo che poi potremo sostituirli. Questo è un grave, frequente e stupido errore, perché va contro ogni principio ecologico, contro la salvaguardia del territorio e del paesaggio, contro il nostro patrimonio arboreo e, quindi, contro la nostra stessa vita.
A proposito di poca furbizia, mi viene da dire che, se Belmondo fosse stato resiliente oltre che sfrontato, il film avrebbe avuto tutto un altro finale.


s f o g l i a l a g a l l e r i a 

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ALESSANDRA CORRADINI
📩 info@paesaggiostudio.it
📞 348 0465601

thanks to
alle Regioni Lombardia, Marche, Toscana, Sardegna e Sicilia che attraverso gli Uffici preposti e i loro funzionari hanno dato piena disponibilità per l’invio del materiale fotografico. Per gli stessi motivi ringraziamo anche l’Associazione culturale  Ophrys  (www.molisealberi.com).


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