Giovanna Azzarello: quei dettagli che rivelano la differenza.
La visione a trecentosessanta gradi di una signora del design.
È curioso come talvolta il destino, l’universo o la natura (come vogliamo chiamarli?) offra su un palmo della mano e con incredibile tempismo quelle parole che, all’atto della stesura dell’introduzione al lavoro di una professionista nel campo dell’architettura e del design quale è Giovanna Azzarello, faticosamente si cercavano.
Il rischio in questi casi è di operare una estrema, sebbene non superficiale, “riduzione” è sempre notevole, ma in quest’occasione è venuto in aiuto uno scritto di Francesca Molteni che, dalle pagine dell’inserto “D” di Repubblica del 22 gennaio scorso, così racconta di Gae Aulenti, a dieci anni dalla sua scomparsa: “….disegna tutto, Gae, sempre sola, senza soci né sodali….”.
E ancora, citando testualmente le parole della Aulenti, si legge: “In questo rifiuto della specializzazione, credo ci sia un’armonia”.
Quale migliore incipit per Giovanna Azzarello?
Annamaria Cassani
Giovanna, mi preme subito iniziare con un paio di domande che derivano dalla lettura di una delle tue biografie pubblicate nel web. Mi ha colpito in particolar modo questa frase “… Frequentando l’università capii che l’architettura fine a sé stessa non mi bastava, così mi avvicinai al design.”
Approfondiamo questo aspetto?
Giovanna Azzarello
Sin dai tempi dell’Università ho sempre avuto la netta percezione che qualsiasi distinzione tra le discipline risultasse come una forzatura: avevo ben presenta la visione dei grandi Maestri, da Le Corbusier a Gio Ponti, che esprimevano la loro creatività ed applicavano la loro “filosofia” sia nell’ambito dell’architettura che del design, finanche nelle arti applicate. Penso che la visione dell’architetto debba essere a tutto tondo: qualche decennio fa l’introduzione presso le facoltà di architettura delle scelte “di indirizzo” ha creato, a mio avviso, molta confusione e originato l’idea che si potesse affrontare la professione per “compartimenti stagni”. La mia esperienza, invece, è di tutt’altro genere: ho aperto il mio Studio a Milano giovanissima, a 23 anni, e da subito mi sono occupata sia di design che di progetti di ristrutturazione integrale di edifici, indistintamente in ambito pubblico e privato.
A.C.
Sempre nella medesima biografia dedichi alcune accorate righe per esprimere il disagio che hai provato ad inizio carriera quando, come architetto donna, risultavi irragionevolmente meno credibile dal punto di vista tecnico.
Personalmente ritengo che la professione si formi esclusivamente sul campo e che il cantiere sia la prova più difficile in assoluto che un architetto deve affrontare, una sorta di battesimo del fuoco, in cui le maestranze testano i giovani laureati e ne sondano i limiti dovuti all’iniziale inesperienza. Secondo te è ancora questa la situazione attuale oppure i nostri giovani architetti e designer trovano in questa contemporaneità un clima diverso?
G.A.
Quello della “discriminazione” è un problema che ho superato già da un pezzo e, da diverso tempo, la mia figura professionale gode di rispetto ed alta considerazione che, tuttavia, non mi sono stati “regalati” ma sono il frutto di anni di duro, tenace lavoro che mi ha consentito di superare, nei primi anni ’80, la diffidenza che l’ambiente manifestava nei confronti di una giovanissima donna architetto.
Tuttavia constato che ancora oggi sono pochissime le donne che nell’ambito del design firmano progetti per aziende rinomate: una percentuale marginale rispetto ai colleghi uomini.
A.C.
Mi collego alla tua ultima affermazione per chiederti, da donna a donna, se la situazione cui accenni non sia dovuta magari in parte alle donne stesse che per svariati motivi – non ultimi quelli di natura familiare – troppo presto hanno gettato la spugna rispetto alle prime manifestazioni di “resistenza” in un settore che sa essere talvolta spietato e comunque sempre altamente competitivo.
G.A.
Io posso solo parlare di quella che è stata la mia esperienza: ho avuto sin dall’inizio un atteggiamento molto “rigido” e professionale e sono andata avanti su questa strada come un “carro armato”. Non si deve pensare che sia facile iniziare un rapporto di collaborazione con le aziende perché talvolta danno l’impressione di essere dei circoli chiusi cui non si può accedere semplicemente bussando alla porta e presentando un progetto.
Oggi la situazione è anche diventata più complessa e sono numerosi gli aspetti che si devono tenere sotto controllo, da quelli burocratici a quelli inerenti alla “filosofia” degli stessi produttori.
Mi spiego: le aziende, soprattutto quelle più strutturate, hanno la necessità immettere sul mercato prodotti mirati ed economicamente interessanti che, ovviamente, richiedono una prototipizzazione che generalmente non viene più realizzata da personale interno.
Questo vuol dire che l’azienda deve assumersi costi più elevati proprio nella fase iniziale, precedente alla produzione vera e propria e, quindi, ha la necessità di rivolgersi a designers che conoscano perfettamente la materia e che possano pertanto fornire progetti contenenti il minor numero di labilità possibili.
Sono consapevole che non sia un discorso “politicamente corretto” nei confronti delle nuove generazioni di designers e che qualcuno tenti la strada dei concorsi di idee ma, alla fine, anche solo per l’appuntamento annuale con il Salone le aziende premono il piede sull’acceleratore e per questo vengono coinvolte figure già note e d’esperienza.
A.C.
Ho trovato interessante una riflessione emersa in uno dei dialoghi avuti con i designers: talvolta può accadere che l’eccessiva conoscenza della tecnica e della tecnologia dei materiali risulti un freno alla creatività perché, anche inconsciamente, si cerca di non superare i limiti e di non andare “oltre”. Qual è la tua opinione in merito?
G.A.
Penso che oggi, anche in conseguenza di quanto ho esposto nella risposta precedente, non ci si possa più permettere di non conoscere approfonditamente gli aspetti tecnici.
Un prodotto di industrial design presuppone la perfetta conoscenza, a monte, delle proprietà del materiale che si utilizzerà. Non solo: occorre tenere ben presente anche l’aspetto economico, cioè i costi oltre i quali l’azienda non può spingersi per produrre quell’oggetto. Se si progetta, ad esempio, una sedia in fusione, sapendo che il costo vivo s’attesta sui mille euro e che verrà immessa sul mercato a tremila, si capisce perfettamente che non si è fatto un prodotto di design ma una bella scultura che sarà difficilmente vendibile.
A.C.
Analizzando la tua produzione penso di aver frettolosamente interpretato come il filo conduttore sia una sorta di personale “gusto retrò”. In realtà mi sembra più corretto dire che ciascun pezzo, che è al di fuori da qualsiasi intento di componibilità, derivi da un’analisi delle sue matrici storiche che vengono poi interpretate aggiungendo un carattere di contemporaneità e di glamour in alcuni casi. Ce ne parli?
G.A.
Sì, è esattamente così: tutta la mia produzione è caratterizzata da una “pulizia” di linee cui aggiungo dei dettagli che connotano l’oggetto e lo rendono perfettamente riconoscibile.
Ad esempio, per l’ultima madia che ho progettato per Rugiano, “Frak”, ho voluto delle ante con un inserto in vetro che ricorda proprio la coda dell’abito maschile da cerimonia: un elemento di distinzione tra la grande quantità di mobili simili che la nostra contemporaneità ci offre.
E ancora: l’ultimo scrittoio che ho ideato per Meroni & Colzani ha un piano inusualmente asimmetrico ed inoltre può essere utilizzato anche come toilette perché studiato per l’inserimento di uno specchio, sempre di serie.
Ogni elemento dei miei prodotti di design non è mai fine a se stesso: partendo dalla funzione faccio calare quello specifico dettaglio che rende il risultato unico, distinguibile. È questo il mio stile.
A.C.
Mi sembra di poter dire che una gran parte della tua produzione sia volta a restituire un’immagine di “movimento” e di “dinamicità”, dovuta in alcuni casi all’utilizzo del metallo di cui si può quasi percorrere mentalmente il gesto della piegatura (mi riferisco alle base dei tavoli Panarea e Lipari by Meroni & Colzani, Italo by Colico, alla libreria Infinity by F.lli Orsenigo solo per citare alcuni esempi). Ci descrivi la genesi di questi progetti?
G.A.
Sono partita proprio ipotizzando una continuità dell’elemento “linea” ed il primo esempio in tal senso è il tavolo “Iron” prodotto da Riva 1920: si tratta di due cavalletti, due “V” rovesciate che poggiano su una barra orizzontale e intersecano altri due elementi a “V”, più piccoli, che sostengono il piano: un concetto di una semplicità straordinaria.
Anche la base del tavolo Panarea (Meroni & Colzani) si basa sul medesimo principio: quello di restituire una semplicità di forma attraverso un processo di “sottrazione”. In questo caso si tratta di un tubo che, piegandosi, realizza un disegno molto dinamico, senza interruzioni.
“Intrigo”, l’ultimo tavolo che ho disegnato e che sicuramente non avete ancora visto, ha come base una forma conica composta da due elementi calati uno dentro l’altro, realizzati con delle bacchette metalliche dall’orientamento opposto e che pertanto disegnano dei rombi con un effetto molto interessante.
Ma, se volete, anche la libreria “Infinity”, prodotta da Fratelli Orsenigo, con i suoi montanti dai profili alternativamente concavi e convessi si basa sulla ricerca di un effetto dinamico a partire da linee molto semplici.
A.C.
Analizzando le produzioni degli ultimi anni di mobili outdoor non si può non notare l’avanzare di un processo di ibridazione: il livello di cura dei dettagli associato alla preziosità dei materiali rendono questi prodotti adatti anche per ambienti interni. Sembrerebbe, questo, calzare a pennello per la collezione outdoor che hai progettato per Annibale Colombo. Su quali basi è nata?
G.A.
Quella che ho progettato per Annibale Colombo è una collezione di arredi esterni di grande pregio realizzata in massello di teak con giunti in acciaio spazzolato e confermo che potrebbe tranquillamente trovare la sua collocazione anche nella zona living delle abitazioni, proprio per la semplice eleganza delle sue linee, la preziosità e cura dei dettagli.
L’Azienda ha una tradizione familiare improntata su una spiccata sensibilità nei confronti dei materiali e delle loro finiture ed una sentita vocazione per una lavorazione di tipo artigianale. In particolare, se questa collezione non si può definire di tipo “economico”, sono altrettanto convinta che il concetto di “luxury” non si debba tradurre in un’ostentazione di ricchezza di forme e decori all’interno della casa ma piuttosto di un’occasione per realizzare prodotti con materiali e finiture più pregiati di altri, anche con forme “minimal”
Ad esempio la collezione di divani “Melody” che ho disegnato per il settore outdoor di Rugiano presenta una linea armonica ed elegante nella semplicità delle sedute morbide ed accoglienti; tuttavia la caratteristica principale di questa collezione è nel “dettaglio” degli elementi in metallo che fungono da schienale e da bracciolo, arricchiti da corde intrecciate, indispensabili strutturalmente ma caratterizzanti anche esteticamente.
A.C.
Non è da molto che abbiamo “digerito” il concetto di NFT riferito ad opere d’arte digitale. Lo scorso anno il designer argentino Andrés Reisinger ha progettato una collezione di mobili virtuali che sono stati venduti nel corso di un’asta on line ad un prezzo impensabile per oggetti immateriali di design. Di questa collezione si è poi concretamente realizzata ed immessa sul mercato la poltrona Hortensia, costituita da trentamila petali di tessuto sagomati al laser. C’è chi ipotizza che questo potrebbe diventare il modo in cui nascono gli oggetti di design in un futuro non molto lontano, tempo un decennio, e che pertanto ci dovremmo preparare al cambiamento. Personalmente la cosa mi spaventa: tu cosa ne pensi? Ravvisi davvero questa possibilità? Sei preparata?
G.A
Sicuramente in quest’epoca, complice il rapido progredire della tecnologia, stiamo assistendo ad una grande esplosione di novità.
Penso che nell’ambito del design ci sarà sicuramente un’evoluzione ma dubito fortemente che la figura del designer – che progetta, segue la realizzazione dei prototipi, cerca di capire le esigenze delle aziende per arrivare ad un prodotto frutto di incontri, interscambi, ricerche di mercato – potrà essere sostituita da procedure o tendenze “fashion” o virtuali.
A.C.
Qual è la tua idea di casa?
G.A.
Per me la casa deve essere uno spazio fluido, privo quasi di barriere, in cui gli ambienti living e cucina, che ritengo essere i più importanti per la vita familiare, non solo si dovrebbero intersecare ma offrire la possibilità di svolgervi più attività.
Ricordate che un tempo si passava più tempo in cucina e non solo per preparare i pasti? Ecco, mi piace l’idea di poter recuperare per questo spazio quell’aspetto di centralità e di convivialità che si è perso perché ad un certo punto lo si è voluto penalizzare nelle sue dimensioni.
Anche per le camere da letto mi piace pensare ad una multifunzionalità, che vada oltre il riposo notturno e le esigenze di organizzazione e contenimento dell’abbigliamento personale; cerco, là dove lo schema distributivo originario o di progetto lo consente, di far carico a corridoi e disimpegni della funzione “contenitiva” liberando spazio nelle camere che in questo modo possono essere adibite allo svolgimento di altre attività, quali studio, lettura o lavoro, e lungo tutto l’arco della giornata.
Questi ultimi due anni di pandemia, oltretutto, hanno confermato la mia naturale propensione per gli spazi fluidi e multifunzionali. Ultimamente i miei progetti di interior sono incentrati ancora di più sul concetto di accoglienza e hanno recepito anche la necessità di pensare gli ambienti in funzione di un aumentato tempo di permanenza della famiglia tra le pareti domestiche. E poi mettere a disposizione, per ciascun componente, oltre agli spazi personali anche quelli per il lavoro e, non ultima, dedicare la giusta attenzione agli esterni.
A.C.
Com’è la tua casa, Giovanna?
G.A.
Vi posso solo dire che si trova ai piani alti di un edificio che offre una magnifica vista su Milano, godibile da un ampio terrazzo; il resto mi piacerebbe che lo vedeste di persona.
A.C.
È un invito?
G.A.
È un invito!
s f o g l i a l a g a l l e r i a
a cura di
ANNAMARIA CASSANI
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GIOVANNA AZZARELLO architettodesigner
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