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Fabrizio Musa: vivere nella bellezza

L’artista comasco ci apre le porte del suo studio.

Como ci accoglie in una soleggiata mattina d’autunno.
Sedute ai tavolini dei bar davanti al sagrato del Duomo le persone stanno indifferentemente a maniche corte o con giubbini dalla leggera imbottitura. Qualche giorno prima aveva nevicato sulle alte quote delle Alpi e lo si percepisce da una leggera brezza fredda che investe le vie del centro storico della città. Il Lago da qui non si vede ma lo si percepisce nell’aria: alla mente affiorano i paesaggi lariani ben descritti nei romanzi di Andrea Vitali e anche nell’ultimo noir di Donato Carrisi, ambientato proprio a Como.
È in questo contesto che vive e lavora l’artista di fama internazionale Fabrizio Musa, comasco da “50 anni precisi”, che ci accoglie aprendoci le porte del proprio studio situato nel palazzo che ospita la Fondazione Giuseppe Terragni.
“Ricercato a livello intercontinentale”, Musa si muove tra Europa, Stati Uniti, Canada, Cina.

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A 25 anni dalla sua prima personale ha al suo attivo numerose mostre: se ne contano più di trenta elencate nella biografia sul sito web personale.
Il dialogo con Musa inizia poco dopo mezzogiorno: solo più tardi scopriremo il perché di questo orario insolito fissato per l’appuntamento.
A fine chiacchierata usciamo dal palazzo con la fotocamera e gli occhi carichi di immagini dell’eclettico studio/galleria di Fabrizio, ma soprattutto con il cuore allegro e leggero per la sua semplice e straordinaria accoglienza.
Nel frattempo di lui abbiamo saputo come, quando, dove e perché si è affacciato al mondo dell’arte.

Annamaria Cassani
In un articolo on line della primavera scorsa, apparso sul magazine Artribune, a proposito dei progetti di riqualificazione delle facciate di edifici appartenenti a grandi quartieri popolari, il direttore Massimiliano Tonelli ha lanciato una provocazione. Cito testualmente: “Vietato riqualificare grandi edifici di edilizia residenziale pubblica se non si coinvolgono nel progetto gli artisti”. Tu cosa ne pensi?

Fabrizio Musa
Penso che ci debbano tuttavia essere dei progetti coerenti per gli interventi di arte nell’urbanistica delle città. È auspicabile che vi sia una regia a monte al fine di decidere e valutare in quale contesto si possa fare un intervento artistico a livello urbano: non tutti gli edifici o contesti di fatto si prestano.

A.C.
Nell’immaginario collettivo l’artista è visto come una persona più o meno “originale” (per non dire stramba) e più o meno “tormentata” che cerca di restituire nelle proprie opere il vissuto personale o la propria visione del mondo sulla scorta di un innato talento. Qualche tempo fa è stata riportata una tua dichiarazione in cui dicevi che per un artista il talento non è più sufficiente ma è diventato molto importante l’aspetto del marketing. Approfondiamo l’argomento?

F.M.
È indubbio che marketing e comunicazione siano attività fondamentali e imprescindibili per un’artista contemporaneo: il rischio è che il talento non sia sufficiente per emergere e far conoscere le buone idee nel mondo dell’arte. In questo settore le gallerie dovrebbero avere il ruolo di riconoscere, promuovere, sostenere e far “crescere” gli artisti. Ho fatto la mia prima mostra personale nel 1996, quando ancora non esistevano i social e la comunicazione era molto più difficile rispetto ad oggi perché ci si doveva far conoscere dai giornalisti di settore, le cui pubblicazioni arrivavano solo in un secondo momento ai collezionisti e ai potenziali acquirenti.
Oggi, grazie ai social, la comunicazione avviene in tempo reale.
Faccio un esempio per tutti: il quadro che ho realizzato lo scorso anno, e che ha come soggetto Papa Francesco, è stato oggetto d’interessamento da parte di un collezionista solo dopo pochi minuti la pubblicazione sul mio profilo Facebook: una cosa inimmaginabile 25 anni fa!
Voglio aggiungere, però, che se da un lato le opportunità che il web offre sono notevoli, per contro si moltiplicano anche coloro che si cimentano in questo lavoro e che rischiano di perdersi in un mare indefinito ed indefinibile da cui, di fatto, non riescono ad emergere.
Mi sento tranquillamente di dire che occorre anche essere un po’ manager di sé stessi per raggiungere gli obiettivi prefissati.

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A.C.
Riesci a riconoscere il talento negli artisti emergenti?

F.M.
No, riconosco solo quello che mi piace: non riesco ad avere una visione totalmente “esterna” al mio gusto personale che è influenzato anche dai grandi artisti ai quali mi sono ispirato, come ad esempio Andy Warhol.

A.C.
Che tipo di formazione hai avuto?

F.M.
Io non ho avuto una formazione di tipo artistico: ho frequentato il liceo classico e poi la facoltà di giurisprudenza. La mia formazione è avvenuta con la pratica. Ero dotato, a detta di tutti, di una buona mano per il disegno e mi dilettavo nel periodo universitario con tele e pennelli nella casa che condividevo con i miei genitori (la convivenza familiare mi ha portato alla scelta di utilizzare gli “inodori” colori acrilici!).
Mi ero preso un anno sabbatico per seguire la ristrutturazione di una casa di famiglia sull’appennino parmense e l’assenza di qualsiasi tipo di distrazione nel mio alloggiamento (nessun segnale televisivo, radiofonico e telefonico) faceva sì che alla sera, dopo aver di giorno seguito i lavori edili, mi mettessi a dipingere. In quell’anno ho realizzato più di 100 quadri!
Rientrato a Como ho iniziato a far vedere i miei lavori e a partecipare a mostre organizzate dal Comune e dedicate ai giovani artisti del posto, con riscontro favorevole da parte del pubblico.
È stato in quel momento che ho pensato di fare della mia passione una vera e propria professione.
Ho iniziato di fatto riproducendo alcuni quadri di Monet, come puro esercizio: sono stati acquistati anche questi!

A.C.
Come hai completato la formazione artistica?

F.M.
L’ho fatto sempre ed esclusivamente sul campo, non ho sentito la necessità di avere influenze di scuole o professori: ho visitato mostre, musei, gallerie, letto e analizzato decine e decine di cataloghi di arte.
La mia formazione è basata sul “lavorare” tutti i giorni, anzi tutte le notti!

A.C.
Ed è qui che volevo arrivare! Spieghiamo il perché dell’appuntamento che ci hai dato all’insolito orario di mezzogiorno?

F.M.
Io lavoro di notte: quelle notturne sono le ore a me più congeniali perché non sono disturbato e riesco a lavorare con continuità. Con lo scorrere delle ore prendo un ritmo sempre più veloce finché arrivo a quel momento particolare, tra 5 e le 6 del mattino, in cui la mia resa è paragonabile quasi a quella di un intero pomeriggio.

A.C.
Viene spontaneo chiederti come si concilia la vita familiare con il tuo lavoro, dato che hai una compagna ed un figlio di 5 anni.

F.M.
Passo sempre le serate con loro, sono sempre presente a cena e aspetto che mio figlio si addormenti prima di andare in studio. Nei week end in genere non lavoro e non tutte le notti lavoro, anche se mi addormento sempre dopo le sei di mattina, pure quando sono a casa: in queste notti lavoro al computer.

A.C.
Hai parlato di casa: cosa rappresenta per te, un punto di arrivo o di partenza?

F.M.
Soprattutto un meraviglioso punto di vista sul paesaggio circostante. Da poco ci siamo trasferiti in una casa con giardino che offre una spettacolare visione del panorama lacustre e delle montagne circostanti, oltre ad un colpo d’occhio sulla città. Le viste dalle finestre sono come dei quadri e ogni giorno ci si potrebbe fermare a guardare fuori per almeno un quarto d’ora!

A.C.
È per questo che, nonostante la possibilità di trasferirti a New York, anche in tempi in cui eri privo di impegni familiari, hai sempre deciso di rimanere a Como?

F.M.
Sì, e l’ho anche sostenuto pochi giorni fa in occasione di un video che ho girato per promuovere la candidatura di Como come “Città Creativa Unesco”: quando si nasce in questo contesto, circondato da bellezze naturalistiche ed architettoniche e di tante altre eccellenze, è difficile separarsene. Ci sono stati anni in cui ho trascorso più tempo a New York che a Como, ma rientravo sempre anche se sarebbe stato più comodo per me trasferirmi lì.
L’ambiente newyorkese è molto particolare, aperto alle buone idee. Sono tutti molto disponibili, i collezionisti organizzano cene in cui gli artisti vengono presentati agli invitati e la notorietà si diffonde a macchia d’olio. Sono stato introdotto da colui che è poi è diventato un mio grande amico, una persona eccezionale, di gran cuore: Enrico Proietti, ristoratore di alto livello. Mi aveva commissionato 40 tele per il nuovo locale che avrebbe aperto nell’Upper East Side di New York.  Io ero già stato in più occasioni a New York grazie a contatti italiani che vi risiedevano: Enrico aveva visto una mia mostra e mi ha chiamato, proiettandomi in un ambiente di collezionisti benestanti che hanno apprezzato il mio lavoro.

A.C.
Chi acquista le tue opere? Hai un target preciso?

F.M.
I miei acquirenti non appartengono ad una “fascia di reddito” ben precisa.
Quando il valore delle mie opere ha iniziato ad avere una certa importanza ho fatto in modo di non perdere alcune fasce di acquirenti producendo serigrafie, opere su carta, stampe Fine Art.

A.C.
Chi decide le quotazioni delle opere? Come avviene il processo di valorizzazione di un’artista?

F.M.
Nell’ambiente artistico ci sono critici e curatori che analizzano la crescita di un artista che viene valutata in base a diversi criteri, tra cui le mostre personali e collettive, i luoghi in cui ha esposto, il prestigio delle gallerie con cui collabora, ecc.
In base a questa analisi è attribuito dagli esperti un “Coefficiente d’artista” – che peraltro esiste solo in Italia – che viene applicato in una formula accanto a parametri numerici (dimensioni) dell’opera.

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A.C.
In un tempo lontano gli artisti erano al “servizio” di re, imperatori, papi e ricche famiglie. Oggi di chi o di che cosa?

F.M.
Spero vivamente che non siano al servizio di nessuno!

A.C.
Neanche a servizio del mercato, Fabrizio?

F.M.
È una questione di scelte. Se per esigenze di mercato ad un artista viene, ad esempio, chiesto di produrre dieci tele al giorno è chiaro ed evidente che dovrà fare ricorso all’aiuto parziale o addirittura totale di qualcuno. E questa è sicuramente un’opzione.
La seconda opzione, ed è ciò che esercito io, è quella di realizzare quello che ci si sente di fare, a discapito anche delle vendite, ma a favore di una superiore qualità della vita e
 delle opere stesse.
È uno dei motivi per cui non ho mai voluto creare legami attraverso contratti: mi piace gestire il mio lavoro in autonomia, così come i miei contatti, e conoscere chi compra i miei quadri.

A.C.
Mi aggancio alle tue ultime parole per chiederti cosa si prova nell’avere tra i propri acquirenti personaggi appartenenti al variegato mondo della cultura e dello spettacolo la cui notorietà è a livello internazionale?

F.M.
È sicuramente un importante riconoscimento del mio lavoro di artista che si aggiunge, come completamento, alla grande soddisfazione di esporre le mie opere attraverso mostre personali presso grandi musei di importanza internazionale.

A.C.
Una grande parte delle tue opere è volta alla riproduzione di architetture contemporanee: togliendo loro la terza dimensione le cristallizzi su una superficie conferendo loro un’altra prospettiva, sia fisica che temporale, suscitando reazioni ed emozioni ovviamente diverse rispetto all’originale.  Cosa c’è alla base di questo processo?  Il non saper creare dal nulla e l’aver bisogno di un’immagine reale da cui partire, come hai più volte dichiarato, è sufficiente a spiegare il tuo approccio alla pittura?

F.M.
Alla base di questo processo c’è l’idea di arrivare ad una semplificazione dell’immagine. In che modo?
Innanzitutto togliendo il colore e poi agendo sui contrasti e sulla luminosità: elimino dall’immagine tutto ciò che non ritengo indispensabile per quel tipo di rappresentazione. A detta degli architetti di cui riproduco le opere, e non ultimo lo stesso Mario Botta, i miei lavori risultano più vicini al concetto iniziale da cui erano partiti nella loro progettazione e che l’influenza dell’ambiente “reale” circostante non ha consentito loro di ritrovare pienamente a costruzione ultimata.
Ho iniziato a lavorare sulle architetture nei primi anni 2000. Inizialmente riproducevo quasi esclusivamente architetture razionaliste perché meglio si prestavano al mio concetto di rappresentazione dell’essenza della struttura. La prima mostra personale che ho fatto sul tema è stata nel 2001, nella sede del Parlamento Europeo: erano tutti quadri che riproducevano architetture di Giuseppe Terragni.
In seguito ho avuto la necessità di confrontarmi con le opere di un architetto vivente. L’occasione di conoscere Mario Botta ha dato inizio ad una collaborazione che è ancora in essere.

A.C.
La tecnica che tu utilizzi per ottenere il risultato di semplificazione delle immagini implica una fase preparatoria?

F.M.
Sì, io preparo sempre in digitale i progetti che poi prendo come riferimento nella riproduzione in acrilico su tela.

A.C.
Che rapporto hai con “le forme” in cui si esprime l’architettura contemporanea?

F.M.
Mi piace moltissimo l’architettura contemporanea, ma non tutta si presta ad essere interpretata secondo la tecnica che è alla base del mio lavoro. Le architetture di Santiago Calatrava, ad esempio, si adatterebbero moltissimo, ma ogni mia opera è inquadrata in un progetto di più ampio respiro, con precisi obiettivi e finalità, e non potrei riprodurre di fatto tutto ciò che si presterebbe al mio lavoro.

A.C.
Approfondiamo la tua tecnica pittorica e i tuoi “bianchi e neri” ?

F.M.
Trovo che il colore sia per certe architetture un elemento quasi di disturbo ed eliminarlo, in alcuni casi, consente di mettere maggiormente a fuoco le forme dell’edificio.
Questo processo di riduzione deriva dal fatto che per diversi anni mi sono occupato della realizzazione di opere digitali lavorando esclusivamente con lo scanner: scansionavo oggetti tridimensionali interagendo con loro attraverso la luce ed il movimento, ottenendo delle immagini digitali che sembravano modificate ma che in realtà non subivano alcun tipo di post produzione.
Sono stato il primo al mondo ad aver depositato il marchio “Scanner Art”.
Ho esposto queste opere anche in una mostra al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano affiancate, a pavimento e con retroilluminazione, nientemeno che a quelle di Leonardo!
Raggiunto il limite di questa tecnica, ho pensato di scansionare ancora oggetti tridimensionali e immagini fotografiche “in formato testo”, cioè utilizzando la scansione con le medesime modalità che venivano usate per digitalizzare le pagine scritte: le immagini che ho ottenuto di fatto erano il risultato di quello che il computer leggeva come testo, eliminando tutto ciò che per esso non risultava essere “scrittura”.  Ho trovato molto interessante l’estrema semplificazione delle immagini che il computer restituiva, con pochi pixel perché gli scanner di allora non riproducevano con un’alta definizione.
Ho pensato di riprodurre su tela le immagini che la scansione mi restituiva e sono nate così le mie opere in cui erano rappresentate le mie passioni: l’architettura e il cinema.

A.C.
In che modo hai rappresentato il cinema nelle tue opere?
F.M.

Mi era stata proposta una mostra su Stanley Kubrick e io ho passato intere notti a fotografare, su pellicola, i fotogrammi dei suoi film. Con questo grande regista è stato facile: ogni frame delle sue opere cinematografiche è di fatto un quadro e io ne ho tratte 40 tele!
Anche le opere di Fellini si prestano molto ad essere trasposte su tela.

A.C.
L’emergenza sanitaria mondiale di quest’ultimo anno e mezzo ti ha in qualche modo influenzato? Come hai vissuto in questo periodo?

F.M.
All’inizio del primo lockdown in Italia, nel marzo del 2020, mi trovavo negli Stati Uniti.
Una galleria milanese mi aveva invitato, per il terzo anno consecutivo, ad esporre in una delle più grandi fiere di arte al mondo, l’Armony Show di New York, che richiama collezionisti da tutta l’America e non solo.
Poco tempo prima ero stato a Montreal su invito di miei clienti che mi avevano commissionato una tela di grande formato che riproducesse lo skyline della città.
Non c’era alcun sentore di pericolo nel continente americano e seguivo con stupore, e anche con apprensione, le notizie che provenivano dall’Italia.
Quando sono rientrato a Como ho sentito la necessità di un periodo di riposo o comunque di rallentare il ritmo frenetico che avevo sostenuto nei mesi precedenti in giro per il mondo.
In quel periodo, però, viste le restrizioni, di fatto ho rinunciato solo alla parte conviviale del mio lavoro, cioè quella che prevede l’incontro con i miei clienti presso lo studio che funge anche da personale galleria espositiva.
Ho lavorato su temi che in quel periodo mi avevano colpito: la preghiera solitaria di Papa Francesco in Piazza San Pietro che mi ha ispirato un dittico, e l’opera che ho realizzato su invito dalla Andrea Bocelli Foundation, andata poi all’asta da Christie’s, con riferimento all’evento Music For Hope, il concerto che Bocelli ha tenuto il giorno di Pasqua, a Milano, in una deserta Piazza Duomo.
Ho consegnato personalmente l’opera ad Andrea, in un bellissimo incontro nella sua casa in Toscana.

A.C.
Fabrizio, in un momento in cui molti guardano ad Oriente per ampliare la propria attività, hai mai pensato di proporre il tuo lavoro ad “Est”?

F.M.
No, perché temo che non possa essere accolto favorevolmente, per una questione di “gusto”. Propormi in questi Paesi potrebbe significare introdurre delle varianti nella mia tavolozza, cosa che non vorrei fare perché rappresenterebbe una forzatura.  Divertirmi mentre lavoro è un privilegio a cui, a questo punto della mia vita, non voglio rinunciare.
Ma, posso dire di essere in stand by con la Cina circa l’avvio del lavoro per una serie di opere il cui contratto è stato formalizzato nel gennaio del 2020 a ridosso della drammatica esplosione della pandemia.
Un intermediario mi aveva contattato dopo aver visto i miei quadri aventi come soggetto le grandi vittorie del mondo del calcio commissionati dalla FIGC in occasione dei mondiali del Sudafrica del 2010; è seguito un viaggio istituzionale in Cina cui sono stato formalmente presentato alle autorità. Il governo Cinese ha dato avvio alla costruzione nella città di Weifang di un grandissimo centro sportivo olimpico che contempla anche un museo in cui nelle varie sale espositive dedicate al calcio saranno esposte in modo permanente circa una quarantina di mie opere. Spero di poter al più presto dare avvio alla realizzazione delle opere!

A.C.
Vorrei che tu commentassi una frase riportata nella mostra monografica su Mario Sironi presente in questi giorni presso il Museo del 900 di Milano. Dice l’artista, nel 1935, a proposito della pittura murale: “Nei templi, nei palazzi, nella destinazione architettonica l’opera d’arte vive. Il quadro è una misura insufficiente “.

F.M.
Non sono d’accordo, ma mi sento anche di dire che la frase di Sironi probabilmente poteva avere maggior valore in quella particolare contingenza storica: a mio avviso non risulta più attuale.
Vedo la pittura murale, e io stesso ho fatto delle opere in tal senso, come un intervento di tipo urbano, così come dicevo all’inizio di questa chiacchierata, oppure collocata in interni istituzionali. Sicuramente non la consiglierei in interni privati.
Le mie due ultime opere parietali realizzate a Como, una nel salone d’ingresso della Confcommercio, ed un’altra, in esterno, nell’ex area industriale Ticosa , sono di fatto  realizzate su grandi pannelli di legno okumè, potenzialmente rimovibili.

A.C.
A proposito di pittura in esterno, Fabrizio, vuoi dirci qualcosa sul tuo famoso e celebrato murales “Novocomun”, un omaggio all’architetto razionalista Giuseppe Terragni che, a 15 anni dalla realizzazione, nel 2019 è stato cancellato con “una bella mano di bianco” da una iniziativa privata che, seppur lecita, ha destato non poche perplessità presso la cittadinanza e le autorità?

F.M.
Non ho mai preso una posizione in merito, non mi sono mai lasciato andare a dichiarazioni e continuerò a non farlo su questo argomento.
Ho realizzato quest’opera su un edificio privato, in accordo con i precedenti proprietari, con la consapevolezza che dovesse avere un carattere temporaneo.

Un artista deve saper anche accettare che la propria opera non duri in eterno.


s f o g l i a l a g a l l e r i a  &  g u a r d a i l v i d e o



a cura di
Annamaria Cassani

guest
Fabrizio Musa
Via Indipendenza, 55,
22100 Como CO
✉️  info@fabriziomusa.com

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