Liquido è meglio.
C’era una volta la forma e la funzione: e oggi?
Dividerei il bel libro di Tommaso Bovo (Design liquido, Forma Edizioni, 2022) idealmente in due parti, seguendo i due focolai di impressioni che si sono innescati leggendolo.
La prima serie di considerazioni contiene innanzitutto un debito di gratitudine (da parte mia): finalmente qualcuno (l’Autore) ha avuto la brillante idea di raccogliere, tramite interviste, un bel po’ di materiale (esperienze, citazioni, opinioni, battute, teorie) riguardo al design, di ordinarlo, di fare domande non scontate ai vari professionisti, di garbatamente provocarli, di farsi rivelare il perimetro di una materia che personalmente trovo sfuggente alle definizioni, di proporre qualche alternativa o suggerire nuove chiavi di lettura.
Il design non è una scienza esatta (per fortuna visto che vibra di genius personae e tocca le corde dell’animo umano?) e pur avendo “conoscenza del ramo” come appassionato cultore, ho visto e sentito opinioni variabili sul tema che non sempre m’hanno sostenuto nell’apprezzarne le sfumature e le teorie, di frequente un po’ autoreferenziali.
Bovo è stato bravo, già dall’introduzione, ad intrigarmi con la “sua” versione dei fatti: si avvicina in silenzio, rimane acquattato nel fogliame delle domande, cerca gli indizi, segue le impronte, ascolta i rumori, alza la punta naso e fiuta il momento, aspetta le risposte, le abbranca, le ripone nel carniere.
Perché se è vero che lui, da gran cerimoniere, chiede, ascolta e controinterroga, e perciò riferisce il vissuto degli altri, ha il pregio di non voler necessariamente porre una definitività ai concetti come fossero le tavole della legge.
E questo suo modo mi ha permesso di capire.
A margine del discorso aggiungerei una considerazione personale: mi verrebbe da dire che il termine design, negli ultimi tempi, è stato strattonato (strapazzato?) facendogli assumere ruoli forse originali ma non so quanto coerenti con la sua matrice naturale. Oggi, se un mobile o un oggetto non è “di design” storciamo il naso. Almeno per sentito dire dobbiamo essere tranquillizzati sul fatto che quel mobile o quel prodotto lo sia (ripeto: almeno per sentito dire) e a quel punto siamo rassicurati, possiamo mettercelo in casa.
Mi domando: c’è qualcuno che scientemente progetterebbe o realizzerebbe, oggi, un mobile o un oggetto non di design? Chiedo: quale progettista o azienda o cliente s’infilerebbe, oggi, sulla strada della scelta aprioristica di autoescludersi da una progettazione, realizzazione o acquisto non “di design”?
Quindi, per tornare a noi, l’Autore offre una originale visione della disciplina che demanda alle parole dei 18 intervistati dal curriculum scolastico e professionale che stupisce. E se anche i confini del design non sono perfettamente rettilinei perché molti professionisti e i loro Maestri hanno, o avevano, considerazioni sfumate sull’argomento,
Tommaso Bovo ci sollecita a seguirlo e, come uno sherpa, ci invita su crinali anche inaspettati facendoci scoprire nuovi panorami.
Quindi posso dire che oggi, anch’io, ne so di più.
La sua scrittura ed il tenore delle interviste (18 designers che raccontano il loro mondo, anche personale) ha per me anche il pregio di un delicato intervento pedagogico che mi aiuta a distinguere, in un orizzonte congestionato di oggetti/prodotti ormai pressoché omologati, dove sia ancora recuperabile il guizzo creativo, l’originalità (ma non a tutti i costi), la distanza da quel “famolo strano” che nasce per il solo gusto di épater le bougeois, la perizia del fare con cognizione e sudore, il sostrato “umanistico” della progettazione (G. Iacchetti, pag. 29) che non si piega al solo canone del mercato (vendibilità) ma lo rispetta e lo tiene in opportuna (irrinunciabile) considerazione (non c’è da arrossire, è una qualità, lo so per mestiere), che non deve compiacere le incursioni modaiole ma offrire un’interpretazione, un altro modo di far partecipare attivamente prodotti, arredi, oggetti all’interno delle nostre mutate modalità di vita e d’intimità domestiche.
Probabilmente è difficile spiegare il design, dire cosa fa o dovrebbe fare, perché dovrebbe farlo lui e non un’altra disciplina o attività. Infilarlo dentro una sola definizione, che peraltro non sia vittima dei tempi, è forse come fargli un dispetto, non so se lo meriti.
M’è parso di cogliere che le interviste del libro arricchiscano la visione: mi richiamano alla mente il prisma ottico.
Cioè: il design/designer, come il prisma, viene orientato in modo che la luce policromatica (le suggestioni, i desideri del pubblico e le esigenze delle aziende, il confronto con produzioni déjà vu, l’ispirazione personale, … )lo penetri da una faccia che, trafitta, la restituisca in differenti modalità ed intendimenti sotto forma di altre fasce di luce. L’abilità e competenza del design/designer separa quella luce bianca nelle tinte costitutive per le sue doti di rifrazione, restituendo una nuova visione, altri colori.
Magari ho esagerato, ma l’utilità delle pagine di Bovo è stata, tra le altre, quella di porre ulteriore chiarezza all’argomento e, se non risolve tutte le sfaccettature, ha il merito, davvero nobile, di averci provato, lui e i suoi “soci”, con profondità e cognizione.
E questa era la prima macro-annotazione.
La seconda è forse più incline alle mie conoscenze professionali ma che può, penserei, anche accostarsi senza forzature alle ragioni filosofico-contenutistiche del libro.
Muovendomi fra le pagine assisto ad un’irrisolta lotta intestina (più che legittima, per carità) tra le parole-simbolo del design: forma e funzione, sostanza ed estetica. Capisco che sia un opportuno punto di partenza per ogni buon ragionamento sul comporre l’oggetto/prodotto, capisco che sia un tracciato che abbia le proprie ragioni anche nel pensiero dei Maestri, capisco che ci siano motivazioni “strutturali” e probabilmente “storiche”, tuttavia mi chiedo: non è che, oggi, esse costituiscano anziché il perenne, imprescindibile punto di partenza una sorta di limite?
La mia domanda è magari ingenua. Mi chiedo: per come è, come è stato considerato e per le aspettative che come utenti/acquirenti riponiamo nel design, si potrebbe ritenere, oggi (non ieri, chissà domani), che questa distinzione si sia un po’ sfarinata? Che possano coesistere, quelle quattro parole, nella stessa modalità espressiva, quindi nello stesso prodotto/oggetto senza prediligerne una a sfavore dell’altra?
Mi spiego: perché rinunciare alla forma? E questa perché dovrebbe disattendere la funzionalità o soggiacervi? La sostanza, esattamente come l’espressione estetica, non sarebbero forse un bel traguardo? Insieme intendo.
E’ vero, come ci racconta bene Tommaso Bovo, che dal Dopoguerra in qua si sono considerati i “pesi” delle singole voci (per esempio gli accenni a Enzo Mari, Achille Castiglioni…) quasi indipendenti tra loro nell’azione del design e quasi tendenti ad elidersi a vicenda, ma oggi vale ancora?
Il mondo è cambiato (e accelerato da 15 anni in qua): qual è il fruitore di questi oggetti/prodotti di design che se li porterebbe a casa, acquistandoli ma badando “semplicemente” ad uno soltanto di quei quattro fattori?
Chi s’accontenterebbe della forma, senza tutto il resto?
E’ un po’ provocatorio il mio intervento se ipotizzassi che, in una sedia, ci sono tutte le componenti esclusa una, la dimensione estetica? E che quindi il prodotto/oggetto è insindacabile tranne per essere un po’ brutterello? Che si fa se viene “ridimensionato” nel fatto estetico da parte del pubblico e ritenuto “poco piacevole”?
Quando dico che il mondo è cambiato non accenno a valori ideali o giudizi, semplicemente vorrei accostarmi al tema come si guarderebbe una fotografia. Le modificazioni intervenute (evoluzione?) di gusti, costumi, stili di vita nonché le tradizionali distinzioni di genere sono tutti contemporaneamente presenti nella nostra società.
Le indicazioni della sociologia e le indagini riguardanti i behavioural economics delle persone (tendenze sui comportamenti d’acquisto) mostrano una realtà che conferma, una volta di più nonostante i decenni trascorsi dalla sua ideazione, quello che A. Maslow aveva delineato nella sua “piramide”: man mano che le persone soddisfano le proprie aspettative basilari e più semplici, si spingono a ricercare qualcosa di più. Ma, bisogna sottolinearlo bene, non vogliono rinunciare alle dotazioni pregresse di quell’oggetto/prodotto perché ritenute superate, bensì intendono “aggiungere cose” a ciò che già si conosceva/possedeva. A parte l’ovvio abbandono di funzionalità o caratteristiche dovute alla naturale obsolescenza (quando non aggiornabili e integrabili) quel che conta è che ciò che abbiamo lo consideriamo un prerequisito. La funzione della sedia è di farci star seduti, si spera comodamente (precondizione): oggi ci aspettiamo, proprio perché siamo cambiati noi e le nostre aspettative, che questa sedia appaghi le altre sfumature della nostra personalità (desideri). Il prodotto/oggetto diventa interessante quando risponde ad una serie composita di queste sollecitazioni, dove le condizioni economiche (il prezzo) non sempre risultano il prioritario elemento di scelta.
Quindi? Forma, funzione, sostanza ed estetica rientrano nella percezione del prodotto nella sua interezza e rappresentatività. Diamo per acquisite determinate dotazioni (irrinunciabili) ma contemporaneamente vorremmo un oggetto che incarni il nostro immaginario o nuove aspirazioni, che sia capace di racchiudere uno status, di dimostrare la nostra individualità: il prodotto/oggetto oggi declama il mio Io, il mio personalissimo gusto, le scelte e quello che vorremmo essere. In un mondo ingombrato da migliaia di sollecitazioni quotidiane, di tutti i tipi, da ogni fonte, con tutti i mezzi, l’acquirente diventa in fretta “maturo”, vale a dire che non s’accontenta più, vuole essere continuamente stimolato (suggestionato?) da nuove esperienze.
Il design eredita queste aspirazioni, i nuovi bisogni, non ci dobbiamo stupire.
Acquistare un nuovo telefono cellulare oggi comporta un ragionamento, da parte del cliente, che non è più limitato alla telefonata in senso stretto (che diamo per scontata) ma riguarda la velocità del processore, la capacità della memoria, la bontà dell’ottica fotografica, ecc. Perché non dovrebbe riguardare anche il colore del guscio esterno? O la possibilità di intercambiarlo così diventa “personalizzato”? E le dimensioni? La maneggevolezza? E dopo tutto questo, non pretendiamo che sia anche bello? Che cos’è tale elenco se non il design nella sua totalità?
Penso che oggi il design abbia questi ulteriori, gloriosi compiti, non solo riferibili alle mere questioni tradizionalmente legate all’oggetto in senso materiale ed alla sua realizzabilità.
La matita del professionista deve evocare, stupire, gratificare i sensi (tutti e cinque: è sinestesia), rivelare il gusto del proprietario (acquirente), comunicare una scelta di vita, anche “culturale”, dimostrando con il possesso del prodotto sia la modalità dell’essere (non tanto dell’avere) che della sensibilità etica.
E chi più ne ha …
s f o g l i a l a g a l l e r i a
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RICCARDO E. GRASSI
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