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Design,  Interviste

Davide Vercelli: un “Homo Faber”

a cura di Annamaria Cassani

“Pensare sempre ad un oggetto nella sua possibilità di miglioramento”

20160817 180754 e1706438146303“Facevamo valvole bellissime, ma la mia ambizione era un’altra”.

Ingegnere, da sempre affascinato dai meccanismi e dalle proprietà dei materiali, supportato da una naturale predisposizione per il problem solving, Davide Vercelli, designer, alla fine degli anni ’90 passa dalla direzione di linee produttive di componentistica idraulica ad occuparsi di product design, brand design, brand strategy ed exibit per aziende appartenenti ai settori dell’illuminazione, accessori per la casa, radiatori, rivestimenti e bagno. 

Classe 1966, vive e lavora a Varallo, capitale storica e culturale della Valsesia, in una posizione di perfetta equidistanza dai fermenti creativi e dalle visioni culturali di Milano e Torino.

Collabora con istituti ed università (Politecnico e IED di Torino) e ha ricevuto, per il suo lavoro, premi e riconoscimenti internazionali.

Annamaria Cassani
Davide, partiamo con il racconto del tuo logo: oltre al tuo nome e di cosa, in sintesi, ti occupi, appaiono
due mani graficamente stilizzate e sovrapposte. Che significato hai voluto trasmettere? In che modo
l’elemento grafico che hai utilizzato comunica i tratti distintivi del tuo lavoro?

Davide Vercelli
Il logo è nato quando mio figlio, oggi quasi maggiorenne, aveva tre anni: a quell’epoca giocavamo spesso con le nostre mani, le confrontavamo e ne facevamo calchi in gesso per vederne i cambiamenti nel tempo. È stato naturale per me immortalare i momenti dell’infanzia di Giacomo che ci vedevano uniti (e anche molto creativi, se pensate che gli dipingevo i piedini di blu e lo facevo camminare su tappeti di carta che conservo incorniciati come quadri) nel simbolo grafico dello Studio: la mano grande dell’adulto che contiene, per sottrazione di colore, quella piccolina del bambino.
Ma c’è di più: le mani, quelle del “saper fare”, rappresentano perfettamente il mio approccio alla professione che non contempla una distinzione tra la parte intellettuale e quella pragmatica, concreta: io progetto, disegno, costruisco, restauro.
Mi definisco un “Homo Faber”, una caratteristica che probabilmente mi è stata trasmessa dai nonni: uno, eccellente tornitore del legno, e l’altro sempre alle prese, nel tempo libero, con lavori di tipo manuale.

A.C.
Sul tuo profilo Instagram ci sono pochissime foto dei tuoi lavori, mentre compaiono -le cito in ordine quantitativo decrescente- foto di paesaggi, di architetture o ambienti antropizzati e, in egual misura, immagini di persone, animali e vegetali. Possiamo dire che questa sorta di gerarchia corrisponda alla tua visione del mondo?

D.V.
Instagram non ha mai rappresentato un palcoscenico per il mio lavoro, bensì un compendio del mio vissuto, un contenitore nel quale ripongo le immagini di esperienze volutamente distanti dalla mia attività professionale.
Non ho mai analizzato in percentuale la tipologia di immagini che rendo pubbliche sui social: apprezzo che, inaspettatamente, l’abbia fatto tu e mi piace anche il risultato che è emerso perché io pubblico foto di situazioni e contesti che mi hanno emozionato e di cui conservo un piacevole ricordo. Ad esempio le immagini di verdure fanno riferimento alle operazioni che avvenivano nella cucina di un ristorante che gestivo in società all’Alpe di Mera, una località bellissima che si poteva raggiungere solo a piedi o con la seggiovia, situata ai piedi del Monte Rosa, nell’alta Valsesia.
Ho anche un altro profilo Instagram, “the sound of designche contiene alcune foto della mia collezione di apparecchi audio -credo una delle più ampie d’Europa– in cui racconto come il design ha plasmato le radio, i giradischi,  l’hi-fi più belli e sorprendenti, le loro storie e come sono arrivati a me.

A.C.
Immagino che occuparsi di corporate branding sia molto complesso, perché di fatto si deve applicare una “visione” dopo essersi calati completamente nei panni di altri (l’Azienda) ed averne analizzato il DNA. Quali sono gli errori, rispetto alla tua esperienza, che si possono più facilmente commettere in questo lavoro e quali sono invece i passaggi fondamentali per ottenere risultati positivi?

D.V.
Mi occupo di corporate branding da più di 25 anni e, concedetemi un pizzico di presunzione, penso di non aver mai sbagliato in termini di obiettivi da raggiungere e percorsi da far intraprendere alle aziende che si sono rivolte a me per aumentare il proprio volume d’affari: i successi lo dimostrano.
Per agganciare i canali sui quali l’azienda non ha mai transitato occorre innanzitutto conoscere molto bene il mercato: io mi sono indirizzato, specializzandomi, sull’ambiente bagno.
Ci sono imprese con un know-how all’avanguardia che, tuttavia, non sono in grado di raggiungere nuovi target perché restie ai cambiamenti, talvolta radicali, che devono essere programmati e che coinvolgono non solo la stessa produzione materiale ma anche la rete commerciale che può rappresentare un momento di inerzia che ostacola e rallenta il cambiamento.
Nel corso della mia attività ho dovuto affrontare, paradossalmente, forti resistenze da parte degli studi tecnici interni e persino dalla stessa proprietà.
Ecco perché, per la mia esperienza, posso affermare che il reale pericolo di commettere un errore, in questo lavoro, occupa una posizione insidiosa “a monte” di tutto il processo e consiste nel non comprendere immediatamente i reali desideri di tutti gli interlocutori e, nel medesimo tempo, nel non riconoscere la forza frenante delle resistenze interne.

A.C.
Parliamo del tuo lavoro come product designer: ho trovato molto interessante la descrizione che hai fatto del sistema per doccia SWITCH, riportata sul sito di FIMA CARLO FRATTINI. Cito testualmente: “Nato dalla costante tensione di migliorare l’esperienza delle azioni quotidiane attraverso gli oggetti, dalla necessità di un uso responsabile di risorse e materiali e dal ruolo centrale della personalizzazione…”. Non ti sembra che queste asserzioni possano quasi rappresentare un manifesto per il product design contemporaneo?

D.V.
I contenuti di quel comunicato rappresentano innanzitutto il manifesto del mio modus operandi.
Durante il mio corso di studi in ingegneria mi sono imbattuto in una ricerca, commissionata negli anni ’70  dal Club di Roma al Massachusetts Institute of Technology (MIT), i cui risultati sono stati sintetizzati nel rapporto “The Limits to Growth” (I limiti della crescita) pubblicato nel 1972: le proiezioni basate sul mantenimento della tendenza in atto del “consumo illimitato” delle “risorse limitate” del pianeta avrebbe portato nel tempo (tra una ventina d’anni) ad un collasso del nostro sistema finanziario ed economico.
In 8 anni di collaborazione per FIMA ho progettato pochissime collezioni, una produzione modesta che deriva da mie reali difficoltà morali nel presentare con frequenza nuovi prodotti: quando accade lo faccio in maniera oculata, con seria attenzione al consumo di risorse.

A.C.
Mi aggancio alle tue ultime parole e ritorno sul sistema doccia SWITCH, vincitore dell’Archiproducts Design Awards 2021, per chiederti: in che modo i principi di sostenibilità che hai abbracciato sin dalla tua formazione accademica trovano evidenza in questo prodotto?

D.V.
Il gruppo di miscelazione ha due manopole: la prima regola la temperatura che rimane costante sul livello di comfort personale, la seconda ha funzione di booster. Il reale impulso on/off per l’erogazione dell’acqua è dato, invece, da un bottone: se conduciamo con “coscienza” la nostra operazione, tenendo il booster in posizione zero e stabilendo a priori la temperatura a noi congeniale, quando premeremo il bottone si attiverà un flusso d’acqua della portata da noi consigliata, consistente in 6 litri al minuto [contro una media  di circa 16 litri al minuto, n.d.r. ]
Dal punto di vista della gestualità mi piaceva l’idea di “accendere” l’acqua allo stesso modo con cui si aziona un interruttore dell’impianto elettrico.
Se a tutto questo aggiungiamo il, non trascurabile, dettaglio che il sistema è di dimensioni molto contenute, perfettamente disassemblabile nelle sue tre componenti e riciclabile, oltre che personalizzabile nella scelta della distanza degli elementi e nella configurazione dei pulsanti, mi sento di dire che SWITCH sia un sistema perfettamente in linea con le esigenze/urgenze della società contemporanea.

A.C.
Davide, concedimi una domanda provocatoria e correggimi se ritieni che io sia in errore. Se assumiamo per vera la necessità per il product design di migliorare l’esperienza delle azioni quotidiane, perché ho l’impressione che per il prodotto GRAVITA’, che hai firmato per ANTONIO LUPI, sia stato introdotto un grado superiore di complessità (rotazione di uno dei due elementi che compongono l’oggetto)? Dopotutto si tratta di un appendi salviette che deve assolvere ad una funzione molto semplice, che implica gesti quasi ancestrali.

D.V.
Ci sono due elementi che non abbiamo citato ancora nel corso della chiacchierata e che ritengo debbano far parte della nostra esperienza quotidiana: il gioco e la poesia.
In realtà l’appendiabiti GRAVITA’ funziona molto meglio di un normale gancio da parete perché è basato sul medesimo sistema usato per fissare le corde delle imbarcazioni: due elementi che ruotano e fissano la cima che resta tanto più bloccata quanto più si cerca di tirarla. Ho già detto che la mia formazione è di ingegnere meccanico e i meccanismi mi hanno sempre affascinato.
Non è poi un caso che questo oggetto sia realizzato da Antonio Lupi, un’azienda che per molti prodotti privilegia l’afflato poetico e lo stupore che possono suscitare nel pubblico.
Un altro prodotto che ho firmato per FIMA, e che si basa questi aspetti, è il soffione Melograno per il quale abbiamo utilizzato tecniche antiche quali la soffiatura del vetro.

A.C.
Davide mi “offri il gancio” per la prossima domanda che avevo in animo di farti: perché in un mondo di soffioni doccia dalle forme pure ed essenziali tu hai firmato per FIMA (in collaborazione con l’azienda di illuminazione MELOGRANOBLU) il soffione MELOGRANO, composto da 10 sfere in vetro soffiato, dalle forme organiche poste ad altezza diverse e collegato ad un disco superiore contenente luci led?

D.V.
Il soffione Melograno è un prodotto che ha mutato lo standing dell’azienda alla quale si sono aperte fasce di mercato prima impensabili da raggiungere.
Nasce in modo molto semplice: ero rimasto suggestionato dal risultato di alcune scenografie luminose allestite per il CERSAIE E ARTEFIERA e realizzate con i prodotti in vetro soffiato forniti dall’azienda Melogranoblu, tra cui  la mostra Milleluci – Italian Style Concept, che ho curato nel 2017 con Angelo Dall’Aglio presso il CERSAIE [premiata con la Menzione d’Onore del Compasso d’Oro 2020, n.d.r.]
Ero rimasto talmente impressionato dalla bellezza di questa cascata di luci che mi si è affacciata l’idea di poter trasformare i medesimi oggetti in soffioni doccia per far scaturire una vera e propria cascata d’acqua.
Ho disegnato una forma a cipolla, realizzata in vetro soffiato da Melogranoblu, in cui è alloggiato un aeratore che produce un interessante effetto: l’acqua vi scorre arrotolandosi su se stessa. L’acqua viene addotta attraverso un tubicino di silicone rivestito da una maglia metallica realizzata con i medesimi macchinari che producono le calze.
Ogni gruppo di soffioni è personalizzabile: FIMA fornisce una massa di tubicini in silicone lunga 20 metri e l’utente sceglie a che altezza installare le ampolle in vetro soffiato.

A.C.
Com’ è nata l’idea di XILO per HOM, un termoarredo elettrico in legno di cedro?

D.V.
HOM è stata per me una delle operazioni di corporate branding più interessanti che abbia condotto: di fatto il marchio non esisteva ed è nato come uno spin-off dell’azienda torinese ROTFIL, produttore a livello mondiale di resistenze elettriche per macchine industriali.
Un prodotto, in particolare, aveva attirato la mia attenzione: si trattava di una resistenza elettrica compresa tra due lastre di pietra lavica che l’azienda vendeva letteralmente in migliaia di pezzi in Francia, dove venivano utilizzati come radiatori elettrici a secco, cioè privi di circolazione di fluidi interni.
A causa di costi di produzioni elevati, però, ad un certo punto il titolare dell’azienda decide di sostituire la pietra lavica, che aveva nel tempo evidenziato anche una certa propensione a spaccarsi, con lastre di ceramica che, tra l’altro, inizia a produrre direttamente attraverso i macchinari forniti dall’azienda SACMI.
Anche in questo caso, così come mi era capitato per le lampade di MELOGRANOBLU, sono rimasto affascinato dalle caratteristiche di questo sistema costituito da due lastre di ceramica accoppiate con resistenza interna: il consumo di energia elettrica era ridotto ed il riscaldamento delle superfici avveniva lentamente ed in maniera uniforme.
È stata questa seconda caratteristica che ha “acceso la lampadina” sulla possibilità di integrare il prodotto con una tavola di legno di cedro (un’essenza che conoscevo molto bene perché con essa avevo realizzato tavoli dalle grandi dimensioni che proponevo sul mercato attraverso il brand LIBEROSTILE, appositamente creato) per la realizzazione di termoarredi di design dalle caratteristiche uniche, rimasti sinora inimitati nel loro genere.
 

A.C.
Da diversi anni ti occupi anche di allestimenti per eventi all’interno di importanti fiere e manifestazioni:
il Cersaie, dal 2013, e, dal 2019, la Vip Lounge di Artefiera, a Bologna. C’è qualcosa di diverso nell’approccio alla progettazione di spazi effimeri, la cui natura è transitoria? Questo settore può dare maggiore spazio per la sperimentazione e la ricerca di soluzioni innovative?

D.V.
Dipende dall’ exhibit e da chi commissiona il progetto: in generale ho riscontrato una maggiore possibilità di espressione e di sperimentazione e, non nego, anche di divertimento. Per l’azienda MARMO ELITE, ad esempio, ho realizzato nel 2012 una installazione molto particolare in occasione della fiera MARMOMAC: un esploso di decine di frammenti di marmo e onici che ho contribuito a raccogliere presso i capannoni dell’azienda BUDRI, devastati dal terremoto che ha colpito l’Emilia nel 2012. I frammenti di materiale forati e sospesi al soffitto hanno creato un effetto fermo immagine molto suggestivo e simbolico.
Sempre per MARMO ELITE in occasione della fiera MARMOMAC del 2013 ho realizzato un’altra installazione altrettanto suggestiva: ho immaginato il mio corpo suddiviso in 50 sezioni trasversali, realizzate con altrettante lastre di onice bianco forate e sospese attraverso fili, da cui spiccava un cuore tratto da un’onice rosso con un effetto pulsante dato dalla presenza di una luce led. L’effetto era sorprendente perché si poteva capire di cosa si trattasse solo guardando l’opera da un preciso punto di vista.
Altri allestimenti hanno invece richiesto un lavoro maggiormente incentrato sulla ricerca d’archivio: per esempio lo scorso anno, in occasione del 40° anniversario del CERSAIE, ho trascorso mesi nella redazione della rivista “Il Bagno Oggi e Domani” per selezionare anno per anno quei prodotti che ho ritenuto avere un reale contenuto innovativo. Un’esperienza faticosissima ma molto gratificante!

A.C.
Davide, perché un ingegnere meccanico diventa un designer?

D.V.
In realtà dopo il diploma mi ero iscritto al corso di ingegneria nucleare per poi passare, dopo il biennio comune, a quello di ingegneria meccanica: in quel periodo in Italia si stavano chiudendo le centrali nucleari e non vedevo per me un futuro roseo nel settore. Avevo allora un’idea del design più tecnica che formalista e mi ero posto l’obiettivo di laurearmi anche in architettura. Dopo pochi esami sono stato costretto ad abbandonare questo progetto perché non riuscivo a gestire contemporaneamente lo studio ed il lavoro.
L’occasione di occuparmi di design me l’ha inaspettatamente offerta l’azienda RITMONIO che, all’epoca, produceva solo valvole di sicurezza per scaldabagni elettrici e componentistica varia. Mi sono occupato della progettazione del nuovo stabilimento e dirigevo le linee produttive, un lavoro certamente attinente al mio piano di studi ma non pienamente soddisfacente per le mie ambizioni per cui, conoscendo molto bene potenzialità e know- how dell’azienda, ho proposto l’apertura di una linea produttiva di rubinetti.
Ho ricevuto carta bianca dalla proprietà e a metà degli anni ’90 mi sono trovato a rivestire il compito di unico designer per la divisione rubinetterie di Ritmonio: il primo prodotto che ho disegnato -DUMBO, un rubinetto snodato ispirato alle canne che adducono acqua alle macchine e utensili- ricevette una menzione speciale per il Compasso d’Oro. Una bella soddisfazione ed un incoraggiamento per proseguire sulla nuova strada intrapresa.
Probabilmente la propensione per questo settore faceva già parte del mio DNA e la laurea in ingegneria è stata strumentale per comprendere materiali e tecnologie a supporto della mia creatività.
Più avanti mi sono accorto che non mi bastava più sviluppare solo prodotti: mi piaceva l’idea di poter seguire le aziende proponendo percorsi che potessero allargare i loro orizzonti in termini produttivi, a volte partendo da zero, come nel caso di HOM, a volte affiancandomi ai programmi da loro già avviati.

A.C.
Non hai mai sentito la mancanza di una formazione specifica?

D.V.
No, perché me la sono costruita negli anni, lavorando. Il marketing non faceva parte del mio piano di studi universitario, così come la scienza delle comunicazioni: ho imparato sul campo. Saranno stati probabilmente gli esempi che ho avuto in famiglia, e che ho già citato, ma per me è sempre stato naturale pensare ad un oggetto nella sua possibilità di miglioramento.

In fondo il concetto stesso di design non è legato proprio a questo? E cioè al cercare di migliorare le azioni quotidiane che si riflettono sulla qualità della nostra stessa vita?

A.C.
L’ultima domanda nasce da una mia suggestione. Sono rimasta colpita, visitando il tuo sito web, dall’installazione OPIUM che hai realizzato nel 2013 con la collaborazione di Enrico Ascoli che lavora nel campo della sound art: mi ha evocato atmosfere pinkfloydiane. È un oggetto che proviene dal passato o giunge a noi dal futuro?

D.V.
Ero rimasto affascinato dal lavoro di Enrico Ascoli che avevo conosciuto in occasione di un Salone del Mobile: lo stimavo perché riusciva a dedicarsi completamente al mondo dell’arte senza troppi compromessi.
Opium nasce da una sua idea: voleva realizzare un’installazione in cui la pressione sonora provocata da un altoparlante provocasse evoluzioni di una colonna di fumo profumato, diverse a seconda delle frequenze emesse, coinvolgendo contemporaneamente tre dei cinque sensi degli spettatori: vista, udito ed olfatto.
Io mi sono occupato di dare fisicità al concept di Enrico studiando un ovale di legno dalla forma allungata, contenente un sistema per la nebulizzazione dell’acqua che, in seguito alla pressione e all’intensità delle onde sonore che fuoriuscivano da un woofer, disegnava anelli di fumo. L’insieme era davvero molto suggestivo.
Sicuramente la forma di OPIUM è archetipale e, per rispondere alla tua domanda, può rappresentare tanto lo scudo dei Masai quanto una navicella spaziale, così come può apparire nell’immaginario collettivo o nelle novelle di Moebius, un fumettista francese scomparso una decina d’anni fa delle cui opere ho sempre apprezzato grafica e contenuti.

È solo ad intervista conclusa che mi torna alla mente il bellissimo film del 2016, “ARRIVAL”: OPIUM ricorda molto la forma del monolite alieno protagonista di quella pellicola che affrontava la tematica della non linearità dello scorrere del tempo. Forse l’installazione di Davide ed Enrico può rappresentare, nell’ipotesi di una (rivoluzionaria?) visione circolare dello scorrere del tempo, proprio quest’intendimento: un passato ed un futuro che non si oppongono più.
Ma questo è un altro racconto.


s f o g l i a l a g a l l e r i a

ospite
DAVIDE VERCELLI
Via B.te Garibaldi, 60
13019 Varallo (VC)
📞 347 7997207
📩 info@davidevercelli.it
immagini
archivio Davide Vercelli


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