Martìn Ledesma: ¡No soy filósofo, soy pintor!
I musei di arte contemporanea paragonati a cattedrali: ma di quale spiritualità? Un dialogo sull’arte con il pittore catalano.
Ci accoglie “virtualmente” a Barcellona, nel suo atelier che si affaccia su una piazza nei pressi del fiume.
Notiamo che la chioma fluente di capelli che fisicamente lo caratterizza è più in ordine rispetto a quanto abbiamo visto durante le prove tecniche nella mattinata, e che indossa un maglione che ripete quasi le medesime geometrie ed i colori dei dipinti appesi sulla parete alle sue spalle.
Questo ci fa sorridere e quel po’ di tensione condivisa che si era creata prima dell’incontro, per via della diversità di idiomi, si stempera nelle genuine risate che corrono da una parte all’altra del collegamento.
Classe 1957, Martìn Ledesma comincia a mostrare interesse per il disegno all’età di 10 anni, in modo spontaneo ed autonomo, in assenza di tradizioni familiari in questa direzione.
A partire dall’adolescenza si dedica alla creazione di arazzi e nel 1985 muove i primi passi nel mondo della pittura. A 28 anni inizia la sua formazione accademica presso la facoltà di Belle Arti dell’Università di Barcellona.
È del 1987 la sua prima mostra personale e da allora i suoi lavori sono stati esposti, oltre che in Spagna, anche in Italia, Germania, Francia e Inghilterra.
Pittore figurativo, Ledesma getta il proprio sguardo sulla realtà che traduce attraverso visioni e pensieri che nascono dalla pratica della meditazione.
Attualmente sta lavorando sul concetto di “maschera”, a partire dalla considerazione della vita come una sorta di teatro.
Dice Martin: “Cualquier obra tiene que tener un sentido abierto. Si se puede describir en dos líneas es mala señal”. E sicuramente le sue opere non possono essere descritte in due righe…
Annamaria Cassani
Nel primo numero di quest’anno del bimestrale Artribune, una rivista italiana che si occupa di arte, il direttore Massimiliano Tonelli nel suo editoriale lamenta, per quanto riguarda il panorama italiano, la grande assenza degli artisti e la loro “incapacità di prendere parola e posizione in un passaggio emergenziale delicato”.
Quale pensi debba essere il ruolo dell’artista nella società contemporanea?
Come hai vissuto e come stai vivendo questo periodo di emergenza sanitaria che ha proporzioni mondiali?
Martin Ledesma
In una società economicamente e culturalmente attiva, il ruolo dell’artista dovrebbe essere significativo perché in lui convergono una serie di caratteristiche che lo rendono un elemento particolarmente “sensibile” e quindi potrebbe senza dubbio contribuire allo sviluppo della società che lo accoglie. Purtroppo, almeno per quanto attiene il panorama spagnolo, il ruolo dell’artista è ancora molto lontano dall’essere in primo piano o perlomeno affiancato ad altri esponenti della cultura.
Ho trascorso la “reclusione” nella casa di famiglia dove mi sono dedicato al disegno. Sto vivendo questo momento di emergenza sanitaria con preoccupazione, ma anche con interesse e curiosità: per la prima volta ho potuto vedere Barcellona completamente vuota di giorno e sentirla in completo silenzio di notte.
Come cittadino mi piacerebbe che quanto è accaduto e ancora sta accadendo possa rappresentare occasione di reale cambiamento.
A.C.
“Dimmi che casa hai e ti dirò chi sei”. Com’è la tua casa Martin, e cosa rappresenta per te?
M.L.
Per me la casa rappresenta un rifugio. Vivo con la mia famiglia in un piccolo appartamento a Barcellona.
Ho sempre cercato di trasformare lo spazio in cui ho vissuto, quand’anche fosse stato solo per pochi mesi, adattandolo al mio modo di essere: non potrei vivere in uno spazio in cui non mi senta perfettamente a mio agio.
Nella mia casa attuale ci sono ovviamente molti dipinti e quindi c’è molto colore. In più ho voluto una parete completamente rossa, in stucco veneziano. D’altra parte sono un artista e la mia casa deve riuscire a restituire quello che sono, anche se la maggior parte del tempo lo trascorro a lavorare nell’atelier.
A.C.
Per le tue opere si utilizza il termine “frammentazione” ed il perché risulta evidente.
Viene spontaneo pensare al movimento italiano del Futurismo dove erano presenti i concetti quali dinamicità e movimento, sino ad allora quasi del tutto estranei ad un’arte bidimensionale quale è la pittura.
Nelle tue opere, però, non sempre la frammentazione restituisce questa dinamicità e nonostante le figure siano ripetute sembrerebbero più suggerire riferimenti a sfere psicologiche, come frammentazioni del sé o di un io interiore, quasi una rappresentazione delle diverse possibili anime di un individuo.
È solo un’impressione, oppure c’è effettivamente un aspetto più introspettivo?
M.L.
Sono interessato alla parte convenzionale dell’arte in senso quasi accademico: l’artista deve certamente padroneggiare la tecnica e d’altra parte superare anche il concetto classico di pittura, per andare sempre oltre.
Sebbene la scienza aspiri a dare un’interpretazione alla nostra realtà, probabilmente noi non saremo mai in grado di spiegare tutto. In definitiva, credo che la nostra Anima e l’Universo siano insondabili.
L’arte guarda nell’abisso e racconta ciò che ha visto.
Quello della “frammentazione” ha rappresentato per me un periodo. Adesso non sto più lavorando con questa tecnica, per altro molto laboriosa, che implicava il dipingere due opere diverse, ritagliarle per poi ricomporle, accostate, su tavola. Il risultato finale era qualcosa di diverso rispetto ai due opposti da cui partivo e sicuramente tutto questo rappresentava più un movimento dell’anima ed una forte componente psicologica era senza dubbio presente.
Il percorso che ho seguito in tal senso è stato tuttavia inconsapevole, non è stato frutto di un ragionamento: un pittore non è un filosofo, non è un intellettuale, o perlomeno, non dovrebbe esserlo nelle sue caratteristiche principali.
Io non mi esprimo con le parole ma con le immagini: sono le immagini stesse che mi portano a seguire determinate vie.
A.C.
Nelle tue opere appare spesso il “quadrato” che utilizzi sia sotto forma di pattern, la scacchiera, che come partizione della superficie pittorica. Da un punto di vista simbolico il quadrato assume significati importanti quali lo “spazio” in contrapposizione al “tempo” rappresentato dal cerchio, e la “terra” in contrapposizione al “cielo”.
Che significato ha per te questa forma?
M.L.
Qualche tempo fa ho avuto un momento di astrazione materiale in cui ho utilizzato le figure più elementari: il quadrato e il cerchio; il primo con significato del mondo a misura d’uomo e come casa, e il cerchio il mondo delle sfere, quello della quinta essenza, appartenente alla cosmologia antica.
Ho fatto degli studi in tal senso già a partire dagli anni ‘90.
A.C.
Guardando le tue opere è evidente l’utilizzo anche del contrasto dei colori complementari.
Ci descrivi la tua tavolozza?
M.L.
Si, tendo effettivamente ad usare colori complementari.
In questo momento sto usando sfumature di verde e rosso: penso che sia una trasposizione della dualità umana, come l’emozione e la ragione.
A.C.
Che rapporto hai con il (non) colore bianco, in particolare con la tela bianca?
M.L.
La scienza ci dice che viviamo in un mondo senza colori (il colore non esiste senza luce e senza la percezione di appositi organi recettori, ndr) eppure il colore risulta fondamentale per il normale svolgimento della nostra vita quotidiana. Il bianco, somma di tutti i colori, per me rappresenta il “vuoto” e contemporaneamente” “l’ingenua purezza”.
La tela bianca mi trasmette voglia di fare.
A.C.
In “En las nuevas catedrales”, la mostra che hai tenuto a Milano nel 2008, paragoni i nuovi ed “insoliti” edifici sedi di collezioni di arte contemporanea alla stregua di cattedrali di una nuova spiritualità, citando a tal proposito il Guggenheim di Bilbao, il MACBA di Barcellona e il MUSAC di Leon, opere d’architettura diversissime tra loro, che hanno però in comune la capacità di rivitalizzare intere parti di città.
Che rapporto hai con questo tipo di architetture contemporanee?
M.L.
Al momento della mostra sulle “nuove cattedrali” ero molto interessato al fenomeno dei nuovi musei di arte contemporanea e alle loro implicazioni sociali.
Le nuove costruzioni mi apparivano come “edifici – spettacolo”, contenitori vuoti in attesa di un possibile culto che un giorno, forse, sarebbe apparso.
Ho gettato uno sguardo ironico sull’insolita crescita del fenomeno Museo e ho esercitato una critica ad un certo settore dell’arte contemporanea che non “arriva” alla gente comune e che pertanto si dimostra più interessata al contenitore, l’opera di architettura, e non al contenuto.
A.C.
In occasione della mostra intitolata ZAHORI’ (Tarazona, spazio culturale San Atilao, 2015), riferendoti alla chiesa del XVIII secolo che ospitava le tue opere, hai dichiarato: “E ora ho la fortuna di esporre in un tempio, in una chiesa che è stata costruita per uno scopo religioso. La pittura è sempre stata strettamente legata alla religione e oggi che la questione spirituale è in piena trasformazione, sembra che sull’arte ricada la funzione di ricordarci che può esserci un’altra dimensione delle cose.”
In che modo la tua pittura è legata alla religione o a questioni spirituali? Mi riferisco anche alle Madonne che hai dipinto. C’è un riferimento alla tradizione dei grandi pittori spagnoli?
M.L.
Nelle opere che ho presentato in questa mostra mi sono concentrato maggiormente sugli aspetti più introspettivi dell’essere umano: l’architettura è scomparsa dai dipinti.
La religione può certamente essere considerata una costruzione umana artificiale ma è strettamente collegata al fenomeno spirituale e quindi è un fatto che riguarda direttamente tutte le persone, a prescindere che siano artisti o meno. Non ho dipinto le mie Madonne – il cui volto oltretutto appartiene ad una modella italiana – per motivi religiosi: ho realizzato una breve serie di quadri che si possono chiudere su sé stessi come classici trittici o pale d’altare tradizionali senza alcun riferimento diretto ad un’immagine specifica della tradizione pittorica, anche se indubbiamente amo Velasquez e Caravaggio: sono rappresentazioni della donna come essere trascendente.
A.C.
La parabola dei talenti contenuti nella Bibbia sembrerebbe un invito a non sprecare i doni che la natura ci ha regalato, come se sul genere umano incombesse un obbligo morale di mettere a frutto le capacità che ciascuno si ritrova individualmente, pena una sorta di “eterna frustrazione” o senso di fallimento.
Per contro, qualche tempo fa, ha incuriosito una frase detta da un poliedrico personaggio dello spettacolo italiano, che nel corso di una trasmissione radiofonica ha dichiarato “Nella nostra società il talento è sopravvalutato: quello che conta è l’approccio alle cose” (sostanzialmente, il metodo con cui affrontiamo i vari aspetti della vita, ndr).
Tu cosa pensi rispetto a questi due modi di intendere il talento? Qual è il rapporto che hai con il tuo talento?
M.L.
Sfruttare il proprio talento non rappresenta per me un obbligo morale quanto un bisogno di “assumere quello che si è”: essere un artista non è facile e potresti essere tentato di fuggire dal tuo destino, ma ti troverai sempre come un pesce fuor d’acqua. Siamo esseri in continuo apprendimento e anche il talento, se effettivamente esiste dentro di noi, seguirà un processo di evoluzione. Nel mio caso si articola intorno all’opera: mi piace pensare al mio lavoro di pittore come a quello di un alchimista che sta trasformando il suo essere interiore. L’importante è come ti avvicini alle cose? Mi suona bene! Sarebbe una sorta di “democratizzazione” del talento.
A.C.
Dopo il talento, parliamo di ispirazione: esiste davvero questo impulso? O meglio, occorrono davvero cause scatenanti particolari o magari irrazionali per arrivare alla formazione di un prodotto artistico? Qual è la tua esperienza in merito?
M.L.
Non è una parola che amo molto e mi sembra una visione un po’ romantica, ma per me è chiaro che l’intuizione, termine che preferisco, ha un ruolo importante nella creazione artistica poiché può inconsciamente raccogliere ciò che è “nell’aria” e che sarà poi restituito in un’opera a fronte però di ore ed ore di duro lavoro. Questo è quello che l’artista deve essere in grado di fare.
A.C.
La tua ultima mostra, nell’ottobre del 2019 a Barcellona, si intitola “The Way I see it”, che tradotto letteralmente significa “il modo in cui lo vedo”.
C’è un riferimento all’opinione diffusa che essere artista significhi vedere il mondo con occhi diversi?
M.L.
Certamente, ma l’importante è riuscire a restituire agli altri la propria personale visione in modo tale da essere compresi e non è una cosa facile.
A.C:
Che rapporto hai con il mondo digitale? Cosa pensi del recente fenomeno degli NFT (Non-Fungible Token) che attribuisco certificazioni di unicità, autenticità e proprietà a creazioni digitali che vengono così ad assumere tutti i diritti che avrebbero fisicamente come opera? Come vedi, sull’onda di questi fenomeni, il futuro dell’arte intesa in senso tradizionale?
M.L.
Il tema degli NFT è interessante perché solleva la questione dell’autenticità dell’opera d’arte, dell’aura, di cui parlava Walter Benjamin nel suo noto saggio.
In questo momento si tratta di autenticare virtualmente opere digitali (e commercializzarle). Ma può essere un modo per garantire la proprietà delle opere che si carica in rete, ecc.
È un fenomeno nuovissimo e suppongo che coesisterà con il mondo dell’arte “analogica”.
Non sono preoccupato per il futuro dell’arte tradizionale.
Barcellona, Spagna
s f o g l i a l a g a l l e r i a
testo Annamaria Cassani
immagini Joan Martínez Urrios