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Architettura

Le case che (forse) costruiremo

Un ideale excursus sulle abitazioni e sugli stimoli per guardare al progetto della casa in maniera diversa.

 

Scrittura godibilissima per un testo intrigante e colmo di sollecitazioni intellettuali. L’edizione del 2016 è stata ora integrata (Luca Molinari, Le case che siamo, nuova edizione ampliata, Nottetempo Editore) con un’Appendice che, a grandi linee, riferisce come noi e le nostre abitazioni abbiamo reagito in questo tempo di reclusione sanitaria dovuta al Covid-19.
Si tratta di nove agili capitoletti, breve saggio/pamphlet sull’argomento casa, che per dichiarata intenzione dell’Autore sono destinati ad un pubblico non specialistico e agli studenti invitati a riflettere sullo spazio domestico
E’ così: la modalità di raccontare sembra conformarsi alla lodevole andatura del récit piuttosto che all’argomentare tecnico che, a tratti, comunque si fa giustamente sentire.
E’ una lettura appassionante, anche di nobili intenti sociali, sebbene  spesso ceda a una partigiana visione dell’architettura e del comparto immobiliare, frutto dell’adesione dell’Autore a un modello culturale.
Letture come questa aiutano l’astrazione, la possibilità del pensiero di scegliere altre strade, coinvolgere differenti discipline, riassumere e promuovere nuovi indirizzi e linguaggi, soprattutto in un comparto materialista com’è l’immobiliare: questo ci aspettavamo dalle pagine, ma raramente è accaduto.

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La Prefazione già ci mette in allarme. Leggiamo: “La casa era stata la grande assente nelle narrazioni degli ultimi decenni, eravamo tutti concentrati sugli spazi pubblici, i non-luoghi (termine orrendo che in fondo indica solo la nostra incapacità di leggere ambienti diversi dal nostro immaginario abituale)…”.
Sarà forse vero, però esistono due punti che il libro doveva chiarire e non lasciare alla vaghezza d’una prefazione. Il primo: tutti chi? Chi avrebbe dovuto incaricarsene? Immaginiamo tutti gli architetti … Quindi nessuno ha avuto il tempo negli ultimi decenni di porvi rimedio?
A onor del vero negli stessi anni abbiamo avuto la fortuna di assistere a parecchi interventi di edilizia residenziale e di frequentare progettisti e costruttori che l’hanno disegnata e realizzata. E sempre loro hanno proposto architetture al passo coi tempi e dibattiti sul tema, anche tramite Associazioni di categoria (A.N.C.E. in primis).
Secondo: la definizione di non-luogo (dal saggio omonimo pubblicato nel 1992) si deve a Marc Augé, che ha interpretato il segno dei tempi descrivendo che cosa ci stava capitando dal punto di vista antropologico in relazione a certi spazi e costruzioni realizzati dall’uomo (centri commerciali, aeroporti, metropolitane, ecc.).
Dopo ventinove anni quel testo rimane ancora attuale, non scalzato da altre definizioni: quindi ci pare non solo è riduttivo confinare quel termine
“nella nostra (di chi?) incapacitĂ  di leggere…”  ma i non-luoghi hanno ampliato la lettura di un fenomeno concreto e presente corroborandola con intervenuti aspetti socioantropologici e hanno posto i riflettori su dinamiche inesplorate alle quali, da allora, sono destinati approfondimenti e dibattiti.

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Cosa ci sarà mai di orrendo in quel termine? L’aggettivo sembra appartenere più che altro alla categoria de “i gusti sono gusti” dell’Autore quindi, in attesa di un nuovo conio, accontentiamoci.
Un altro aspetto che ci ha sorpreso è l’impiego di certi aggettivi che abbiamo faticato a comprendere. Ne menzioniamo solo qualcuno per dare l’idea.
A proposito della Balancing Barn, una residenza realizzata nel 2010 a Suffolk, si legge che è opera dello studio di progettazione olandese MVRDV, “…veri e propri nipotini colti e dispettosi della fine postmoderna del secolo scorso” (p. 67). Perché colti? Qual è la necessità di una tale dichiarazione? Cosa distingue un architetto colto da uno che non lo è?
E poi l’altro aggettivo: “dispettosi”. Il dizionario riporta una connotazione negativa, dal che deduciamo il marginale gradimento dell’Autore. Eppure se guardiamo il curriculum dei progettisti, non sembrano nati ieri. Avremo forse detto: irriverenti, eretici (quindi alternativi) verso un’architettura aderente a canoni tradizionali. In tal caso ne vediamo il guizzo creativo, inaspettato, funambolo, che riesce a sovvertire il consueto paradigma residenziale proponendo un’originalità d’approccio, una attenta sensibilità per l’uso dei materiali e il tentativo della casa di emergere dal terreno e scivolare dentro il paesaggio. Proprio come sembra essere la loro cifra stilistica: definirli dispettosi pare un po’ gratuito.
Peraltro, della Balancing Barn non riusciamo nemmeno a intravedere la “colta (un’altra volta!) variante di campagna delle motorhomes americane… e dei camper italiani…” (p.69): quell’abitazione è saldamente ancorata al terreno, a maggior ragione per contrastare la sua parte a sbalzo che aggetta dalla collina.
Altro aggettivo richiamato più volte: nomade, nomadico riferito all’eterna lotta tra la volontà di mettere radici o sentirsi cittadini del mondo. Un aggettivo vittima di un linguaggio oggi alla moda, evidentemente amato dall’Autore che tuttavia non motiva la sua scelta al di là dell’effetto letterario. Nella realtà, a fronte di un segmento marginale di persone che, più per necessità che per scelta, si sposta (e rimane ovviamente in affitto) ne corrisponde un altro, migliaia di volte più numeroso, che aspira ad un’abitazione propria (Rapporto O.M.I.- Bankitalia sulle compravendite residenziali).

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Altra parola magica lungamente coccolata e altrettanto modaiola: fluido/a. Ne segnaliamo un paio di impieghi: “il ridisegno fluido delle piante degli alloggi…” (p.118) oppure “la casa deve essere un organismo fluido, legato all’ambiente urbano tramite i viaggi, gli incontri, le scelte e le esperienze con cui la ricomponiamo quotidianamente” (p.120).
Chiediamo: come si realizza un “ridisegno fluido”? Mancando un’indicazione nel libro proviamo a confrontarci con quanto ci è capitato di vedere in anni di mestiere. Ci sono due strade: si demolisce e si ricostruisce (in questo caso si chiamano ristrutturazioni edilizie) oppure, se piace, si può sostituire il classico “tavolato” in muratura con pareti mobili, tipo le separazioni giapponesi, magari scorrevoli.
In entrambi i casi, dobbiamo tenere a mente l’articolazione delle aperture esterne che influiscono sui singoli ambienti (finestre, balconi, ecc.), tutto il corredo di prescrizioni tecnico-amministrative, i setti portanti, l’impiantistica verticale, ecc.   Un simile ricettario normativo e la sotterranea entropia edilizia che percorre le pagine del libro rischiano, dispiace dirlo, di svaporare ogni nobile desiderio di fluiditĂ . Per farla breve: ci piacerebbe vedere come si fa.
E poi, last but no least: laico. Anche qui non siamo sicuri di aver ben compreso la sfumatura che se ne voleva dare. Riportiamo il primo: “… una serie di volumi hanno indagato la casa con un approccio laico e multidisciplinare …” (p.95). La definizione di laico, menzionata da un dizionario, non lascia dubbi sul significato. E’ probabile che nella frase qui riportata, e tentando di interpretarne il contesto, si volesse allargare il contenuto espandendolo in un senso metaforico. Che, a onor del vero, convince poco. Esattamente come a pag. 102: “… mi hanno insegnato negli anni a guardare i luoghi e la loro anima in maniera diversa e laica…”.
Convincono poco per due sostanziali motivi: l’uso di tale aggettivo è improprio se consideriamo l’argot semantico (inequivocabile) mentre la potenzialità metaforica è tutta da dimostrare. Qualche riga in più di spiegazione poteva aiutare. La sensazione finale è che certe parole risultano vittime di certe epoche, si piegano simpaticamente solo a un dettato trendy, manierista.

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E’ una sollecitazione stimolante quella che fa l’Autore di “tornare a riflettere sul senso profondo che la casa assume per ognuno di noi … per ridare valore a uno dei fondamenti della nostra vita privata e pubblica” (p.18). E’ un invito interessante ma fuori tempo. Sono vent’anni che ci occupiamo del comparto residenziale e, a onor del vero, non s’è mai visto scemare l’attenzione o l’importanza che l’abitazione ha avuto (e continua ad avere) presso le persone.
Quindi fatichiamo a capire che cosa significhi quel “ridare valore”. A scanso di dubbi, e per riconfermare con dei numeri, è opportuno sapere che l’Italia è una Repubblica fondata sulla casa di proprietà: le compravendite residenziali s’attestano annualmente intorno alle 550.000 unità da vent’anni a questa parte (eccezion fatta per una flessione nel triennio della crisi che ha imperversato dal 2008); quasi l’80% delle famiglie ne possiede almeno una e, statisticamente, cambiamo casa tre volte nella vita. Di più: le persone (numerosissime) mantengono la loro passione per la casa acquistandone addirittura più d’una: per le vacanze, investimento, per i figli, ecc.
Di conseguenza comprendiamo ancor meno che cosa intenda l’Autore con “la casa che noi siamo e abitiamo distrattamente” (p.18): se penso all’attenzione che gli acquirenti di un’abitazione ripongono nel scegliere la migliore distribuzione interna degli ambienti, il piano, l’affaccio e la luminosità; se considero con quanta sensibilità scelgono di tinteggiare le pareti, di arredare, di arricchirla di suppellettili e pezzi di design personalizzandola (specie in un cantiere che potenzialmente replica l’identica tipologia sui vari piani) perché sia in qualche modo unica e li rappresenti per stile, gusto e rituali rispetto ai dirimpettai, ebbene nessuno di loro vi abita “distrattamente”. Men che meno se hanno un mutuo.
E neppure chi vi alloggia in affitto: anche in questo caso sono innumerevoli le situazioni in cui le persone tendono a “far proprio” lo spazio domestico con allestimenti e dotazioni personali.
Forse di quel “distrattamente” non è tanto convinto nemmeno l’Autore se confessa, nella pagina successiva, che al solo pronunciare la parola casa “si materializzano sorrisi, rimpianti, dolori, odori, gesti elementari e segreti che si sono depositati nella nostra mente grazie alla consuetudine che solo la quotidianità può generare”.

Continueremo a discorrere delle case contenute in questo libro anche prossimamente: è premiante raccogliere l’invito dell’Autore di rilanciare una discussione sugli spazi domestici ma sarebbe altrettanto bello se potessimo vedere un po’ più di concretezza tra i vari stimoli che emergono dalle pagine. Magari in una prossima pubblicazione?


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