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Interviste,  Architettura,  Design

GUMDESIGN (parte prima): i “solidi” racconti

Laura Fiaschi e Gabriele Pardi, alias GUMDESIGN, rispondono alle domande degli Studenti dell’Accademia di Belle Arti Aldo Galli di Como-IED Network

Ci accolgono on line nel loro studio di Viareggio, Laura e Gabriele, compagni nella vita e nel lavoro, in un giorno 15 del mese alle ore 15. Facciamo, a posteriori, una piccola incursione nell’esoterico e restiamo sorpresi nello scoprire che tra i significati del numero 15 c’è quanto segue: “… la natura del Quindici, permette, inoltre, lo sviluppo di idee e concetti che agiscono per il miglioramento della vita sociale e del benessere su scala mondiale. Il luogo ideale del numero Quindici è la casa. Questa viene curata nei minimi particolari sfruttando, in special modo, il talento artistico della persona con questo numero. Oltre a questo, ai numeri 15 riesce in maniera del tutto naturale cimentarsi sia nella comprensione che nella comunicazione”. Poteva esserci una sintesi migliore per descrivere l’attività di questa coppia?
Pluripremiati in diversi ambiti, Laura Fiaschi e Gabriele Pardi si occupano attualmente di interior design, industrial design, grafica, ideazione ed organizzazione di eventi per fiere e spazi espositivi, consulenze per le aziende di settore.
Su di loro, sempre generosi nel concedersi, hanno scritto firme prestigiose e ogni aspetto della loro attività è stato già indagato.

portrait GumDesign

Abbiamo pensato, pertanto, di affidare le domande dell’intervista allo sguardo curioso di chi si sta preparando a muovere i primi passi nel settore.
Gli studenti del secondo anno di Furniture Design (a.a. 2020-21) del Corso di Design Management dell’Accademia Galli di Como, che si è resa subito disponibile alla collaborazione, hanno formulato una serie di domande che sono state direttamente trasmesse alla coppia.
Il risultato? Due ore di racconti alla fine delle quali siamo arrivati ad un paio di conclusioni certe: la prima è che Laura Fiaschi possiede la capacità, a distanza, di suscitare fenomeni sinestesici: la si ascolta e contemporaneamente si riescono a percepire i colori, gli odori e i sapori del suo mestiere, dei materiali, delle lavorazioni.
La seconda conclusione è che Gabriele Pardi non risulta credibile quando vuole simpaticamente trasmettere l’immagine di un suo presunto stato di subordinazione nei confronti della moglie: i numerosi sguardi d’intesa lanciati nel corso dell’intervista hanno lasciato intendere un singolare affiatamento, complementare sia nella vita che nel lavoro.

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D: Noemi Ratti.
Nel processo progettuale partite subito dal punto fermo della semplicità o prima vi basate su forme più articolate da cui andate poi a togliere l’eccesso?

R: Laura Fiaschi.
Nel nostro processo progettuale il primo passo non è né togliere né aggiungere: è “comprendere”.Comprendere cosa? Comprendere “chi” sarà il protagonista, “chi” nascerà dal nostro progetto.
Spiego meglio con un esempio. Supponiamo di dover progettare uno specchio: già, di per sé, a questo oggetto è associato un importante significato che è quello della “riflessione” che, nella sua duplice accezione (restituzione dell’immagine e azione della mente) può fornire stimoli per l’avvio della ricerca.
I successivi passaggi consistono nel chiederci: “Quali e quanti sono i materiali che costituiranno lo specchio? Quali sono le loro caratteristiche? Quali sono le loro affinità e dissomiglianze? Che tipo di sensibilità avranno gli artigiani che dovranno lavorare tali materiali e quale sarà il loro ingrediente segreto che andrà a caratterizzare come un marchio di fabbrica l’oggetto stesso?
Una volta analizzati quelli che sono gli ingredienti base della ricetta, ci poniamo un’altra domanda fondamentale: “Che cosa vogliamo dire con questo oggetto? Perché vogliamo far nascere un altro specchio?”
Qui inizia la vera e propria ricerca del racconto. Noi siamo soliti definire gli oggetti che progettiamo come dei “racconti solidi” perché in essi cerchiamo di calare un contenuto, proprio come se si trattasse di libri a tutti gli effetti.
Solo dopo aver risposto a tutte queste domande, messi sul tavolo tutti gli “ingredienti”, iniziamo a “creare” ed è a questo punto che dobbiamo operare una sintesi perché altrimenti rischieremmo di “dire troppo” mettendo cose in eccesso nel “racconto solido”.
In questa fase che precede la realizzazione dell’oggetto occorre filtrare e togliere: l’oggetto non è solo nostro ma dovrà avere un rapporto empatico con chi lo utilizzerà ed è per questo che occorre lasciare un vuoto, uno spazio libero che permetta a chi lo riceverà di aggiungere i propri significati.

D: Gaia Fossati
Usate dei modelli o degli schemi nel vostro lavoro di progettazione?

R: Laura Fiaschi.
Quanto ho raccontato prima rappresenta il nostro approccio creativo e per un breve periodo abbiamo cercato d trasmetterlo in un corso sulla metodologia del progetto.
Riteniamo, tuttavia, importantissimo che ciascuno trovi il proprio sentiero per la ricerca dell’idea e di un linguaggio personale.
Come si fa a trovare il proprio sentiero per la progettazione di un oggetto? Percorrendo prima un altro sentiero che è quello che consente di scoprire quelle che sono le caratteristiche personali.
Per me è fondamentale puntare lo sguardo sull’orizzonte e percepire l’infinito senza chiusure davanti gli occhi.
Non credo che potrei esprimermi nelle medesime modalità di adesso senza questa visione e senza le montagne alle spalle che, insieme al mare, delineano un quadro in cui io, molto piccola, trovo la mia posizione, le mie coordinate geografiche.

 

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D: Noemi Ratti.
Avete un approccio progettuale diverso per ogni ambito creativo del vostro lavoro?
Gli allestimenti, ad esempio, occupano lo stesso impegno dell’oggettistica o ci sono tempistiche completamente diverse?

R: Gabriele Pardi.
L’approccio progettuale è il medesimo: parte da un “codice linguistico” che si riversa nei vari ambiti e si declina con le varie situazioni e anche le difficoltà che incontriamo lungo il percorso.
Il nostro è un mestiere che si costruisce nel tempo: più passa il tempo e più diventa semplice lavorare perché le peculiarità personali che si sono consolidate con l’esperienza vengono riconosciute e ricercate.
E noi facciamo quello che siamo capaci di fare, con i nostri consueti approcci.

R: Laura Fiaschi.
Da un punto di vista puramente esecutivo ovviamente la realizzazione di un piccolo oggetto potrà avere un minor numero di tavole grafiche rispetto ad altri progetti, ma non è questo il punto di vista corretto per fare valutazioni. Se si parte dall’idea che un piccolo oggetto debba avere un impegno progettuale inferiore si corre seriamente il rischio di realizzare cose banali che non hanno alcun motivo concreto per essere messe in produzione.
Se si ritiene che valga la pena utilizzare quel particolare blocco di pietra o anche se si pensa che un’azienda debba investire in uno stampo per realizzare un certo prodotto è chiaro che il progettista si deve sentire investito di una grande responsabilità che non può dar luogo ad approcci banali o superficiali.
Certo, lo stand è più voluminoso rispetto ad un piccolo oggetto, ma è anche vero che il suo carattere è effimero. Un oggetto, invece, pur di dimensioni contenute, non deve avere caratteristiche “usa e getta” e pertanto si dovrà prendere in considerazione quello che sarà la sua vita futura e che nel tempo diventerà il suo vissuto.
Quindi: consapevolezza, razionalità e immaginazione devono creare una sorta di “magma” che non si raffreddi in pochi attimi ma che sappia fornire ed alimentare, nel tempo, energia vitale.

D: Edoardo Bonucci
Esiste un tratto caratteristico che accomuna i vostri progetti?

R: Laura Fiaschi.
Quello che accomuna tutti i nostri progetti è l’iter del processo creativo con cui li affrontiamo.

D: Eleonora Ferranti.
L’atto creativo è un processo che avete maturato in maniera del tutto spontanea e innata o si tratta di un’esigenza della quale avete sentito il bisogno di affrontare da un punto di vista più tecnico per poter riuscire ad acquisire la capacità di immaginare un prodotto di design?

R: Gabriele Pardi.
Ognuno di noi ha delle inclinazioni naturali ed è inutile operare su di esse delle forzature; occorre certamente coltivarle con un lavoro costante nel tempo.
Laura e io abbiamo avuto la fortuna di incontrarci e scoprirci diversi, ma complementari in ambito lavorativo.
Di questo sodalizio Laura rappresenta la componente creativa, poetica, eterea mentre io quella più razionale: è una situazione favorevole perché in questo modo riusciamo a spaziare in diversi campi, dalla grafica, al design e alle consulenze a tutto tondo per le aziende.
Dopo più di un ventennio di collaborazione oggi possiamo dire di aver trovato la nostra dimensione ideale che è quella di creare relazioni durature e feconde tra i vari protagonisti del settore, attraverso un percorso misto tra il creativo e l’imprenditoriale. Un po’ come succedeva all’inizio della storia del design italiano.

D: Gaia Fossati.
Quanto è importante il nome in un progetto? Attraverso quale processo creativo e con quali criteri si arriva ad un nome definitivo?

R: Laura Fiaschi.
Il nome è fondamentale ed è parte integrante del progetto: può essere genesi o sintesi del racconto in esso contenuto e, ancora, rappresentare la sensibilità di colui che l’ha pensato e che l’ha trasmesso alla materia (in questo senso riteniamo che gli oggetti non siano proprio così passivamente insensibili!).
Poiché ogni collezione di oggetti nasce dal desiderio di rendere visibile il racconto di un ricordo o di un frammento di esso, per la scelta dei nomi ci interroghiamo su come il ricordo stesso possa essere evocato in chi guarda o possegga l’oggetto. Analizziamo l’etimologia delle parole,  anche quelle che chiamiamo le “false etimologie”, ricavandone proficui filoni di ricerca.
Per capirci: la parola “versante”, ad esempio, può essere intesa come fianco della montagna ma anche come gesto di colui che versa un liquido in un bicchiere. Tutta questa ricerca risulta molto stimolante e ci porta a dei risultati interessanti e soddisfacenti.

D: Gaia Fossati
Con chi vi ponete in relazione per svolgere il vostro lavoro? Che cosa vi viene richiesto?

R: Gabriele Pardi.
Sin dall’inizio noi abbiamo cercato di applicare un metodo che potremmo definire di “autocreazione” del lavoro, tramite l’organizzazione di mostre ed eventi culturali che ci vedeva coinvolti sia all’atto dell’idea inziale che nella realizzazione dell’evento, con il coinvolgimento anche di colleghi, e nella cura del catalogo finale.
Il tema della creazione di reti di relazioni ci appartiene da sempre.
Quindi noi ci poniamo in relazione innanzitutto con noi stessi per gettare quelle basi che possano poi trasformarsi in interessanti occasioni di lavoro.
Questo approccio è stato fondamentale soprattutto all’inizio dell’attività professionale, quando ancora non ci conosceva nessuno: i clienti, gli imprenditori, le situazioni favorevoli non cercate sono arrivate dopo, proprio grazie a questa attività del “metterci in mostra” che si è resa tanto più necessaria per il  fatto di aver consapevolmente scelto di abitare e lavorare in un contesto provinciale, lontano da Milano che è indiscutibilmente l’epicentro del design italiano.
Oggi, grazie alla tecnologia, contatti e relazioni sono più facili: non soffriamo per la lontananza dalla metropoli milanese e godiamo di una città a misura d’uomo quale è Viareggio.
In fondo, penso che l’importante sia gioire di un mestiere, come è il nostro, che dà tante soddisfazioni e fa sentire vivi.

D: Noemi Ratti
Nella vostra collezione “La casa di pietra” quanto ha influito la collaborazione con gli artigiani? È stata necessaria durante tutto l’andamento del progetto o solo nella fase di prototipizzazione?

R: Laura Fiaschi.
Il progetto “La casa di pietra” nasce proprio dalla volontà di ridare spazio e valore al lavoro artigianale, un patrimonio immenso di cultura e conoscenze che rischia di andare perduto.
Per queste collezioni di oggetti per la casa non si può parlare di prototipi in quanto dalla fase di progettazione (una miscela composta per tre quarti dal processo creativo e un quarto dalla restituzione grafica di sintesi) si passa direttamente, attraverso le mani degli artigiani, alla fase di realizzazione dell’oggetto.
È un processo ovviamente diverso da quello industriale che necessita di un certo numero di prove tecniche prima di arrivare al prodotto finale.

D: Eleonoro Ferranti.
Cos’è il design secondo voi? Ritenete significativa la frase “quando tutto è design, niente è design” in relazione alla continua evoluzione che il design stesso subisce?

R: Laura Fiaschi.
Non mi ci riconosco nella frase citata e anche la parola “design” mi calza stretta. Innanzitutto è un termine inglese e, poi, cosa significa realmente? Disegno? E quale tipo di disegno? Quello industriale? E se si disegna per un artigiano non è più design?
Questo termine lascia ancora spazio a tantissima ambiguità e penso che sia giunto il momento per proporre una rivisitazione del concetto in termini anche più poetici, se vogliamo, o che comunque sia comprensivo di tutte le sfaccettature che l’attività di progettazione di un qualsivoglia prodotto, da un marchio all’edificio, comporta.
Perché ciò che accomuna i vari settori riuniti sotto la tenda comune del “design” non è sicuramente il prodotto ma il processo che porta alla realizzazione dello stesso e che parte dall’ascolto di un racconto, dall’elaborazione della mente umana e dalla restituzione di un disegno in cui anche il progettista ci deve mettere del suo.
Forse dovremmo trovare un nome che metta più in evidenza il processo che porta alla realizzazione di un oggetto e nel quale confluiscano concetti quali “fantasia” e “magia”.
Quando da piccola guardavo mia mamma trasformare pezzi di stoffa in abiti eleganti, nonostante fossi consapevole del processo che stava alla base, per me si trattava di un momento veramente magico, alla stregua di un personaggio delle favole che prendesse improvvisamente vita.
E allora, forse, mi piacerebbe che al posto del termine design si potessero unire due parole che non si cristallizzano in categorie: la prima, con riferimento alle Lezioni Americane di Italo Calvino, è “FANTASTICA” e la seconda è “AVVENTURARSI”.
Mi piace l’idea che il designer possa essere definito come un “ESPLORATORE DELLA MENTE”.

R: Gabriele Pardi.
Se pensiamo alle definizioni di design che circolano – il design è forma o il design è funzione –
ci accorgiamo immediatamente che qualcosa stride.
Cos’è infatti la funzione? Per una bottiglia è solo quella di contenere acqua con possibilità di poterla agevolmente versare in un bicchiere? Oppure “funzione” è anche qualcosa d’altro, legata al versante emotivo?
All’oggetto non compete solo la funzione principale per cui viene progettato ma anche quella di produrre sensazioni, emozioni.
Se poi entriamo nel campo di alcune rigide posizioni, che definiscono il design come un concetto unicamente legata al prodotto industriale, allora scopriamo come queste stesse posizioni siano anacronistiche perché la nostra industria non solo deriva dal settore dell’artigianato ma si serve tutt’ora di terzisti artigiani.
Quindi, non c’è una risposta univoca alla domanda su cosa sia il design.
Forse sarebbe meglio riflettere sul termine progettazione, che significa proiettare, gettare avanti, essere alla ricerca di una soluzione che non potrà mai essere univoca.

 

D: Eleonora Ferranti
Quali sono le caratteristiche che deve avere e quale ruolo deve ricoprire il designer del 21° secolo? Quando un designer capisce di aver trovato una vera e propria identità?

R: Gabriele Pardi.
Il designer oggi deve essere una figura capace di muoversi facilmente in diversi ambiti e di generare connessioni anche a servizio delle aziende.
Deve essere la figura che “conduce il gioco”, che analizza, recepisce stimoli e che, con intelligenza creativa, restituisce un prodotto finale frutto di un gruppo di lavoro costituito da diverse figure professionali, al fianco delle quali si pone come coordinatore. Cosa occorre per fare questo? Capacità, conoscenze, passione, testardaggine…
… e anche possibilità di sbagliare (aggiunge Laura, n.d.r) per imparare proprio dagli errori e dai fallimenti.
È molto importante sapere reagire agli sbagli rimettendosi subito in gioco. L’errore è quello che più di ogni altra cosa ti dà la possibilità di sperimentare e di fortificarti.
L’identità di un designer è sempre in divenire e non arriva mai ad un traguardo definitivo, ma questo vale per tutti. In realtà sono gli altri che ti fanno capire quando hai trovato un livello di espressione personale, una riconoscibilità caratterizzante. E questo accade quando ti vengono a cercare proprio per quello che sai fare, perché durante il percorso, più o meno consapevolmente, hai trovato la tua identità.

D: Eleonora Ferranti.
Per la presentazione a scopo di marketing di un progetto quanto ritenete che siano utili caratteristiche come una buona dialettica espositiva e un ottimo materiale fotografico?

R: Gabriele Pardi.
Sono due mezzi espressivi fondamentali. Il fotografo possiede una propria sensibilità e riesce a catturare dettagli e a far emergere l’anima degli spazi e degli oggetti. Anche la parte testuale è importantissima.
A questo proposito abbiamo constatato una generale difficoltà dei nostri stagisti nel raccontare i loro progetti.
Noi insistiamo molto su questo aspetto della comunicazione, cioè quello di trovare le parole giuste per convincere gli altri della bontà del progetto che si presenta.
Un vocabolario ridotto (il filosofo Umberto Galimberti ha indagato in tal senso la società contemporanea restituendo splendide sintesi di pensiero che invito a leggere) e l’assenza di un metodo che superi la mera applicazione di “forme e funzioni”, costituiscono a nostro avviso i primi limiti da superare per le nuove generazioni di designer.

D: Edoardo Bonucci.
Tra i molti materiali che avete utilizzato nei vostri progetti qual è stato per voi il più interessante?

R: Gabriele Pardi e Laura Fiaschi.
Tutti i materiali naturali sono per noi interessanti. Devono essere trattati con una certa elasticità ed occorre conoscerli a fondo perché le loro reazioni alle diverse lavorazioni non sono sempre uguali.
Quello che ci ha insegnato l’esperienza de “La casa di pietra” è che ogni materiale riesce ad appassionarti in una maniera incredibile e che più lo conosci e più vorresti andare oltre rispetto a quelli che hai creduto, fino ad allora, essere i suoi limiti non superabili
Nessuno pretende di allungare i blocchi di pietra, ovviamente, ma il marmo ad esempio si presta ad essere tagliato in spessori sottilissimi e addirittura ci si può guardare attraverso.
In questo momento stiamo lavorando su dei piccoli oggetti in Bianco Carrara con i quali abbiamo “spinto” sulla lavorazione a controllo numerico allo scopo di conferire al marmo la leggerezza della porcellana.
Ci piacciono molto queste sfide perché si stratta di progettare, proiettare, andare oltre gli aspetti soliti ed esplorare condizioni mai affrontate.
E allora risulta facile capire come anche una piccola tazza per noi possa rappresentare un grande risultato perché in essa si possono ritrovare 22 anni di lavoro in 2 millimetri di spessore.

D: Edoardo Bonucci.
Quali ritenete essere le caratteristiche che vi differenziano da altri designers?

R: Laura Fraschi.
Abbiamo scelto una strada che dopo 22 anni rappresenta ancora quel sentiero avventuroso che vogliamo percorrere. Noi riusciamo a progettare solo dal momento in cui possiamo inserire un racconto in questo processo.


s f o g l i a l a g a l l e r i a


a cura di
Annamaria Cassani

in collaborazione con

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immagini archivio
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