Alla ricerca del bello e del buono
a cura di Riccardo E. Grassi
Cos’è il design: riflessioni sulle parole della presidente del Salone del Mobile.
Sono sempre interessanti, per me che frequento il design da appassionato ed intellettualmente curioso, le idee e le parole che accompagnano questo prezioso, italianissimo savoir faire capace di sorprendere e di suggerire, ogni volta, un non comune modus vivendi.
A maggior ragione quando leggo l’intervista alla presidente del Salone del Mobile, che, a proposito di design, chiama in causa il bello e il buono, citando il greco kalòs e agathòs, che sposano cultura e bellezza (door, la Repubblica, n.1, maggio 2023).
Me li immagino proprio così questi progettisti/designers: funamboli straordinari che camminano in equilibrio sul filo della fantasia e, continuando a sognare, occhi chiusi o aperti, con perizia e mestiere depositano le idee sul foglio della vita reale.
E se il Salone, con l’esperienza e la leggerezza dei suoi 62 anni, indugia tra le pieghe dell’informazione e dell’emozione, rimane il modo migliore, o uno dei modi, per rappresentare la competenza degli espositori, la loro sensibilità in rapporto ai tempi che cambiano ma che non si fa travolgere da momentanei lampi di gusto, le possibilità dell’abitare.
Perché la casa è quello che contiene: persone, affetti, memoria, arredi.
È il rapporto non negoziabile che intratteniamo con le cose che ci circondano, con le parole che hanno percorso le stanze, con gli anni che vi abbiamo trascorso dentro.
E proprio sulle parole vorrei soffermarmi: quelle contenute nell’intervista che citavo poc’anzi e che restituiscono solo marginalmente il valore e lo spessore che meriterebbe la manifestazione.
Sarà forse la necessità di sintesi e di spazio che impongono il taglio giornalistico tuttavia taluni concetti rischiano di rimanere vittime di uno scarso approfondimento.
Per esempio mi sarebbe piaciuto sapere che cosa la presidente intende quando ci rivela che “il Salone è una spinta a innovare … la competizione sana è un motore di crescita per tutti”. Mi chiedo come sia quella non sana. Un mercato deve essere per forza competitivo, altrimenti è un’altra cosa: significa che esiste un gran numero di produttori e acquirenti che agiscono in maniera autonoma garantendo una pluralità di scelte, prodotti, azioni. Che poi possano esistere aziende che operano in maniera poco nobile è una possibile stortura, come ne vediamo tante al mondo; ma la spinta a innovare non è riferibile o conseguenziale all’aggettivo “sana”. Peraltro il consumatore, o le leggi, riconoscono presto la scarsa qualità di certune lavorazioni o prodotti (a maggior ragione, oggi, con i commenti sui social) che verranno penalizzati nelle vendite. In questo caso, sarebbe stato interessante avere degli esempi di competizione sana riferibili all’universo “arredo” così da capire meglio.
Altro motivo di perplessità è “cos’è e cosa non è il design?”, domanda rivoltale dal giornalista. La risposta non è la rivelazione che ci saremmo aspettati. Eccola: “Il progetto deve rispondere a delle esigenze del vivere che sono molto mutate in questi anni”.
Non comprendo dove stia la novità d’una tale affermazione: mi occupo di marketing immobiliare residenziale da una ventina d’anni. In tutto questo tempo ho visto mutare sistematicamente bisogni e desideri abitativi (e con essi i mobili) perciò, pena l’uscita dal mercato, i progetti (edilizi e di arredo) hanno sempre cercato non solo di rispondere alle “esigenze del vivere” ma, potendo, anche di anticiparle (si chiamano, non a caso, indotte).
Tornando alle sue parole, la dichiarazione prosegue: “Dove va il design? In una direzione che crea case sempre più inclusive, flessibili, che abbiano un rapporto osmotico con la natura … “. Ebbene, domando, come dovrebbero essere le case “sempre più inclusive”?
Al di là dell’impiego dell’aggettivo oggi in voga, “inclusive”, ormai sulle labbra di tutti tanto d’aver perso ogni senso, possiamo avere un esempio? Che cosa, o chi, dovrebbero includere?
E poi, come sono quelle “flessibili”?
La progettazione, l’edificazione (in muratura o in legno), le normative stabiliscono regole e modalità: tutto depone, ahimè, per l’esatto contrario.
La flessibilità rimane, bontà sua, circoscritta unicamente ad un affascinante ambito “filosofico” oltre che ad un consumato lessico modaiolo.
Riguardo al “rapporto osmotico con la natura” nutro almeno un dubbio. Capisco l’influenza reciproca che persone o elementi contigui esercitano uno sull’altro (definizione di osmosi), tuttavia di regola i condomìni, nelle città, nascono sul sedime di una costruzione preesistente (se non intendiamo avvalerci della facoltà di “consumo del suolo”), assediata da altre costruzioni: quindi il rapporto osmotico con la natura è spesso l’aspirazione di molti che però non riesce a farsi concreta. Eccezion fatta per le villette in periferia o in provincia.
Vorrei tornare un attimo ancora al design. Ricordo un aneddoto di qualche decennio fa: al liceo, il professore di filosofia ci intratteneva sul concetto di bello, arrivando a dire, esausto, che siccome è “imprendibile” conveniva dirottarne la spiegazione verso il suo opposto, così che per differenza se ne poteva dedurre il primo. Ma, nonostante quest’altro tentativo, rimanevano ben vivi i dubbi, le fantasie, le opinioni. Molti anni dopo, nel 2007, Umberto Eco arrivava a scrivere, con acume e sottile senso dell’ironia, le seducenti pagine sulle violazioni di ogni canone estetico che presero il nome di Storia della bruttezza.
Ecco, l’idea che mi sono fatto leggendo le risposte della presidente a proposito di design è pressoché analoga all’aneddoto liceale: si riesce a darne una definizione? Il giornalista, forse col mio stesso dubbio, molto argutamente ripropone la domanda al contrario: “cosa non lo è?”. La risposta non placa la curiosità. Eccola: “Tutto ciò che non è ricerca, che non è innovazione e che risponde puramente a dei criteri di natura economica e commerciale”.
Dal che si deduce che un oggetto di design debba essere accompagnato da un prezzo congruente (e immagino mediamente alto) e da una produzione limitata (perciò non “di natura commerciale”).
Perché ho la sensazione che, dopo queste parole, il design debba trascinare con sé la caratteristica di prodotto elitario? Niente di male, naturalmente, ma almeno adesso lo sappiamo.
Ho sentito parlare, da tempo in qua, di design democratico: sarà un ulteriore ambito di lavoro? La presenza di Ikea sul mercato, con i suoi prodotti impronunciabili e lo stile definito nordico, è motivo di riflessione e/o paragone?
In ogni caso l’affermazione su “cosa non è il design … è tutto ciò che non è ricerca, che non è innovazione”, sembra un po’ fragile.
Il marketing da decenni ci indirizza, giusto o sbagliato che sia, verso un’incessante ricerca (soddisfare i gusti del consumatore) del “mai provato prima”, attraverso indagini su usi e costumi di una società in continuo mutamento: la conseguenza è, fatalmente, l’innovazione. O quanto meno la novità (termini che considero sufficientemente sinonimi).
Nessuno comprerebbe prodotti (di design o no) appartenenti ad un tempo o ad un’edizione precedenti (questione di mode) oppure con tecnologie un po’ obsolete.
Chi sfiderebbe la curva che, nella sua semplicità, viene rappresentata dal cosiddetto “ciclo di vita del prodotto”?
Quindi, per sintetizzare: fare ricerca, e di conseguenza innovazione, sta nell’ordine delle cose in un’economia di mercato o, citando l’intervista, per una sana competizione. Design o non design.
In questo senso mi piace ricordare l’interessante e preziosa lettura che mi ha intrattenuto tempo fa e che ho successivamente commentato (link: https://folderonline.it/design-liquido-e-meglio/).
Spenderei un’ultima parola in merito alla dichiarazione secondo la quale “…le case accolgano prodotti longevi, di alta qualità e rispettosi dell’ambiente”. Oggi non c’è più nessuno che non consideri seriamente l’aspetto green delle proprie giornate, sia il consumatore, sia le aziende, dal cappuccino del mattino (col latte biologico) e brioche (con uova di galline allevate all’aperto) sino al materasso ecologico dove riposare alla sera. Sottolinearlo ancora una volta, oggi, non aggiunge e non toglie: per non cadere negli slogan servirebbero esempi concreti, affinché ognuno di noi possa capire in cosa consista davvero questo “rispetto per l’ambiente”.
E la longevità dei prodotti? Anch’essa farebbe bene al pianeta (credo sia questo l’intendimento della risposta) ma non possiamo dimenticare la durabilità. Quale differenza ci vedo? Se sono una persona di settant’anni e mi vesto come trent’anni prima è probabile che io sia sufficientemente longevo ma un pochino fuori moda.
La longevità, a mio parere, è augurabile ma non governabile ed è, peraltro, soggetta alle tendenze di costume.
Certo, esistono i prodotti “iconici” (altro termine abusato), dalla chaise longue di Le Corbusier al profumo Chanel n.5, dal jeans Levis 501 alla lampada Tolomeo, ma sono eccezioni (per questo diventano master piece).
La durabilità, invece, ci riguarda da vicino: un prodotto (a maggior ragione di design) fatto bene da un’azienda che utilizza materiali di qualità raggiunge il nobile risultato di salvaguardare il pianeta e soddisfare il consumatore.
Ecco, quindi, il valore delle parole cui accennavo all’inizio: è importante far uscire quei termini dal periodo di notorietà, fine a se stesso, che stanno vivendo; se non vengono accompagnati da un contenuto o da qualche esempio finiscono per essere solo un florilegio modaiolo, ed è un peccato.
Per le parole dovremmo avere la stessa attenzione che riserviamo al design: innovazione e ricerca. Se no assistiamo solamente a repliche.
s f o g l i a l a g a l l e r i a