THE ARCH.
Casa, città, persone, spazi: qual è il nostro posto?
A fine settembre, e per soli tre giorni, è uscito nelle sale cinematografiche il film “The Arch.”, diretto da Alessandra Stefani e prodotto da Scarabeo Entertainment: protagoniste sono le architetture delle città.
Si tratta di un docu-film che, a nostro avviso, è il caso di non perdere. Perché l’argomento coinvolge tutti, non solo gli addetti ai lavori o chi ha passione per l’argomento. E comunque per almeno due motivi: l’architettura è una delle prime manifestazioni dell’operare dell’uomo e come tale appartiene a tutti e investe di senso la nostra quotidianità; il secondo motivo riguarda le riprese, realizzate nel 2019, quindi prima dell’ingerenza Covid che ha stravolto le nostre giornate, premendo su abitudini e modi di abitare, rivoluzionandoli.
Ci sarebbe anche un ulteriore aspetto non meno significativo: la qualità delle immagini e la capacità evocativa della narrazione. E lo si intuisce da subito: quello che inizialmente avrebbe potuto sembrare un limite è risultato, invece, un grande vantaggio: la circostanza di aver “fotografato”, attraverso le visioni di architetti di fama internazionale, il punto di vista pre-pandemico circa il futuro delle città ha ottenuto l’effetto di un risveglio dopo un letargo durato più di 18 mesi, la durata dal primo lockdown, mesi in cui il nostro sguardo e i progetti sono stati, nostro malgrado, forzatamente incentrati solo verso gli interni delle nostre abitazioni, come se non esistesse più un “esterno” cui relazionarsi.
Mentre eravamo occupati a riflettere sugli ambienti di casa, a ridisegnarli, a spostare i mobili o a rinnovarne l’arredo per far posto ad una scrivania in più visto l’invadente smartworking,
noi, semplici cittadini, avevamo accantonato la visione più allargata degli spazi della nostra esistenza, gli spazi della città, proprio a causa dell’emergenza sanitaria, improvvisa, inattesa e purtroppo ancora non risolta.
“The Arch” è un trascinante viaggio in quattro continenti che ci coinvolge per un’ora e quarantaquattro minuti, guidato dall’architetto Dada (alias Davide Brambilla) che si sposta in nove metropoli con la sua figura elegante e, a tratti, ieratica.
La pellicola prende avvio con le immagini di un saluto surreale, on line, fatto da Brambilla in omaggio al Professore Antonio Monestiroli, venuto a mancare due anni fa, e si conclude con una videointervista a Mario Cucinella, passando attraverso le immagini di Sidney, Pechino, Seul, Chicago, Berlino, Tblisi, Toronto, Città del Messico e Milano, con un originale ed efficace accostamento tra le città e i suoi protagonisti : “le architetture” e “le persone”, in un rapporto paritario che appare sin da subito imprescindibile.
Mentre scorrono e si alternano le immagini delle città moderne con quelle delle grandi opere del passato (strutture precolombiane, la grande muraglia cinese, solo per rimarcarne alcune) si inseriscono le domande dell’architetto Dada ad alcune fra le più fertili menti del nostro tempo: Glenn Scott, Sue Carr, Wuren Wang, Dae-Hong Minn, Alexander Mezhevidze, Sven Fuchs, Dermot Sweeny, Andrés Cajiga, oltre al già citato Mario Cucinella.
Seguendo questo racconto ci è sembrato di cogliere che ciò che accomuna le visioni di questi protagonisti del dibattito culturale, oltre all’idea e alla ricerca di un’architettura innovativa e sostenibile, è la consapevolezza della necessità di contenere l’espansione delle città e del conseguente aumento della densità urbana: le città si dovranno sviluppare in altezza, ci dicono, e consentire agli abitanti di limitare i tempi di spostamento casa/luoghi di lavoro e casa/luoghi per il tempo libero, che dovranno sorgere a distanze “umanamente tollerabili” per un generale miglioramento della qualità della vita.
Largo spazio dovrà essere lasciato anche alle aree pubbliche, studiate ad hoc al fine di un aumento delle relazioni “dal vivo”, soprattutto per le nuove generazioni abituate alle “connessioni e relazioni”.
Si potrebbe certamente affermare che questa è una visione pre-pandemica e che, per contro, a parità di irrinunciabili premesse “green”, l’architetto giapponese Kengo Kuma, che firma la progettazione di “Welcome, feeling at work” nell’area milanese dell’ex Rizzoli, parla di quella che ci attende come “…un’epoca di sfollamento e ritorno alla natura…”.
E verrebbe anche da riflettere sul recente fenomeno che coinvolge il comparto della logistica: a seguito della universale (irreversibile) diffusione dell’e-commerce, questa “specialità immobiliare” getta sul suolo, in modo estensivo, migliaia di metri quadrati a velocità venti volte superiori a quelle degli insediamenti abitativi.
E, ancora, verrebbe da chiedersi se gli individui, nati nell’acqua e cresciuti ben radicati nella terra, si potranno abituare a vivere come sospesi nell’aria, con un’aumentata altezza del proprio orizzonte visivo, su un pianeta certamente ammalato, ma sul quale, si legge, metà della popolazione vive solo sull’1% delle terre emerse con la restante umanità diffusa su un territorio a bassissima densità.
Ma, forse, poco importa per noi cittadini qualunque quale sarà la strada che si dovrà percorrere, l’una o l’altra o forse entrambe, come accaduto nel passato con le grandi utopie urbane dell’800; poco importa se vivremo in falansteri del terzo millennio o in città giardino “rivisitate” con architetture green che ridefiniranno l’orizzonte urbano.
Come dovranno essere quindi le città del futuro?
Una delle possibili risposte ce la suggerisce lo scrittore e filosofo svizzero Alain de Botton che nel video “How to Make an Attractive City” elenca quali devono essere le caratteristiche che definiscono la bellezza di una città: ordine, compattezza, orientamento e mistero, scala, localismo e … segni di vita.
(P.S.: qualora si volesse recuperarne la visione, la casa produttrice mette a disposizione la possibilità di noleggiare il docu-film per conferenze, convegni o eventi di divulgazione privati)
s f o g l i a l a g a l l e r i a
testo a cura della
Redazione
immagini
Courtesy Scarabeo Entertainment