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Architettura,  Paesaggistica

La natura che ci circonda e la nostra salute

a cura di Alessandra Corradini

Le risposte della scienza senza chiacchiere da bar

Prometto che non visiteremo la fiera dell’ovvio ma, per non correre il rischio di finirci con un argomento così banalizzato, userò parole non mie. Ecco perché vi racconto del libro “Coltivare il giardino della menteIl potere riparatore della natura” (Rizzoli 2021) scritto da una psichiatra, Sue Stuart-Smith che è anche la moglie di Tom Stuart-Smith, un paesaggista inglese.

La grande esperienza professionale di Sue e la raccolta di testimonianze e di documenti che sono presenti in questo libro scritto benissimo sono il frutto del suo lavoro di anni, ma non solo. In effetti in questo caso la vita è proprio l’arte dell’incontro, perché è anche grazie al confronto e alla condivisione tra Sue e Tom che noi possiamo leggere una biografia e una storia professionale unica.

Il libro parla di malattia mentale e di come il verde sia in grado di curarla. Racconta di associazioni inglesi e non (di alcune delle quali la dottoressa Sue Stuart-Smith fa parte) in cui i medici assistono quotidianamente i malati in luoghi all’aperto, dove il lavoro tra orti e giardini diventa una cura efficace, documentata da anni di studi e da sorprendenti risultati di successo.

Con questo articolo non intendo approfondire gli aspetti del libro relativi agli studi in ambito psichiatrico, ma spero di interessare chi mi legge raccontando del benessere che la natura procura a tutti, anche a chi fortunatamente è sano.

Gli esperimenti e i risultati che racconta Sue Stuart-Smith supportano tesi, senza l’ombra di una chiacchiera da bar, che ci devono fare riflettere su quanto possiamo ricavare in termini di salute, di pace interiore e di benessere, se solo ci dedichiamo con costanza a qualche leggera attività nel verde (è sufficiente una fioriera su un davanzale!) e se cerchiamo di vivere a contatto con la natura, nel corso della nostra vita.

Inizio, dunque, subito con una citazione dal libro, a cui ne seguiranno altre. “Parte del piacere di scavare in giardino è racchiusa nell’odore della terra umida. Questo profumo, detto geosmina, è il prodotto dell’attività di batteri actinomiceti e ha un gradevole effetto calmante su quasi tutti gli individui. Il centro olfattivo umano è straordinariamente sensibile a questo aroma, forse perché aiutava i nostri antenati preistorici a rilevare indispensabili fonti di vita. (…) A parte migliorare l’umore attraverso il movimento e il profumo, lavorare in giardino aiuta a regolare la serotonina con l’azione diretta di altri batteri presenti nel terreno. Una decina di anni fa, il neuroscienziato Christopher Lowry notò che piccole quantità di un batterio diffuso nel suolo aumentano il livello di serotonina nel cervello. Il Mycrobacterium vaccae prospera nel terreno arricchito di letame e compost, e quando si estirpano le erbacce o si smuove la terra, lo inaliamo e lo ingeriamo. Ci siamo evoluti insieme a una serie di batteri simbiotici, tra cui il Mycrobacterium vaccae, che di recente sono stati riconosciuti come “vecchi amici” per la loro capacità di regolare il sistema immunitario”.

Sono stati fatti esperimenti su topi esposti al Mycrobacterium vaccae e questi raggiungono risultati ai test più brillanti, hanno una ridotta infiammazione cerebrale, hanno una migliore regolazione dell’umore e un potenziamento delle loro funzioni cognitive e mnemoniche.

Tutti questi vantaggi sono complessi da misurare sull’uomo e in un giardino, ma è chiaro che la direzione è questa.

La direzione sarà pure questa, ma noi viviamo in grandi città dove il verde privato è un privilegio o almeno una fortuna e il verde pubblico dipende da quanto sono stati illuminati e perentori i piani regolatori ottocenteschi.

Perché ancora oggi, se abbiamo grandi parchi a nostra disposizione nel tessuto fitto dei centri storici, lo dobbiamo a quella lontana progettazione urbanistica che ha difeso determinate zone dall’inurbamento vertiginoso; da tutto ciò derivano il Central Park di New York e il Parco Sempione di Milano, tanto per dirne due.

Ed è lì, proprio in quei parchi, che noi possiamo vedere la pausa degli impiegati che approfittano di uno spazio verde vicino al lavoro, perché “Questa interazione inconscia tra mente e natura ha effetti di vasta portata, con implicazioni benefiche per la salute fisica e mentale”.

La nostra Sue (ci scuserà se ci prendiamo questa confidenza) racconta di quando, nel 1869, il neurologo americano George Miller Beard descrisse per la prima volta la nevrastenia, definendola una “malattia della civiltà”, da imputare “Alla cultura economica altamente competitiva delle città, alle imposizioni della vita intellettuale e agli eccessi e ai lussi tipici della metropoli”.

E la cura? La cura era rest or go west (riposa o va’ a ovest), per cui le donne venivano confinate a letto, mentre agli uomini si consigliava di immergersi nella natura: immagino che tutte le donne che mi leggono siano ben felici che i tempi siano cambiati!

Così cambiati che la ricerca di un angolo di verde, di una panchina, di un tiglio che fa ombra è talmente radicata dentro noi tutte e noi tutti che è ciò a cui aspiriamo, non appena ci sentiamo soffocati e costretti nella vita metropolitana.

Ecco perché, per toglierci di dosso la città anche solo per un attimo, il nostro cervello si rigenera maggiormente nei parchi naturalistici (e più hanno un aspetto naturalistico e più il nostro cervello se ne giova).

Sono avvisati tutti gli amanti della funzione “Ortho” in Autocad: tirare righe dritte e disegnare angoli retti quando si progettano spazi verdi è un invito a nozze per tutti i creatori di curve morbide che, passeggiando, tagliano percorsi e aiuole con grande disinvoltura (secondo me, anche chi progetta spazi verdi escludendone la sinuosità taglia gli angoli retti passeggiando, ma credo che non lo confesseranno mai).

Insomma, ricerchiamo la natura in città, ma sappiamo che pochi se ne possono permettere una personale, ecco perché gli studi ci dicono che i ricchi hanno migliori condizioni mentali, ma anche che “…la vicinanza agli spazi verdi riduce di ben il quaranta per cento le disuguaglianze di salute mentale associate al basso reddito”.

E da dove deriva questa nevrosi che le città ci procurano?

“Molti effetti negativi della città derivano da una sostanziale discrepanza: il cervello umano si è evoluto nel contesto del mondo naturale, ma pretendiamo che funzioni perfettamente nell’innaturale ambiente urbano in cui le persone abitano oggi”.

Ecco, dovremmo ricordarci che non è molto tempo che esistono le città e che quello che a noi sembra l’unico modello possibile è un modello recente che fa acqua da tutte le parti, se non altro perché ci fa soffrire.

Ricordiamoci che abbiamo un emisfero destro del cervello che ci consente di essere empatici, umani e bisognosi di connetterci con la natura. “La sensazione di connessione emotiva con altre forme di vita e con la loro vitalità è legata a quella che Edward Osborne Wilson, un illustre biologo di Harvard, chiama biofilia. Lo scienziato propose l’idea di un’affiliazione emotiva innata degli esseri umani ad altri organismi viventi. Da quando avanzò questa ipotesi nel 1984, biofilia è diventata una parola molto in voga nella psicologia ambientale. La sua teoria si basa sul fatto che il mondo naturale sia stato il fattore ad avere maggiormente influenzato l’evoluzione del nostro funzionamento cognitivo ed emotivo. Le persone più in sintonia con la natura e più inclini a conoscere le piante e gli animali sarebbero sopravvissute meglio. Siccome non siamo più in sintonia con la natura tutti i giorni, non sviluppiamo lo stesso grado di sintonia che, però, resta latente in ciascuno di noi”.

Noi esseri umani contemporanei, quindi, abbiamo bisogno di qualcosa che consoli la nostra fatica di vivere.

Ecco perché mi piace chiudere questo articolo, facendo parlare ancora una volta Sue Stuart-Smith: Il giardino è il luogo che ci riporta ai ritmi biologici fondamentali della vita. Il ritmo dell’esistenza è il ritmo delle piante; siamo costretti a rallentare e la sensazione di sicurezza e familiarità ci aiuta a entrare in uno stato d’animo più riflessivo. Il giardino ci offre una narrazione ciclica. Le stagioni si ripresentano e abbiamo una sensazione di ritorno; alcune cose cambiano, altre restano uguali. La struttura stagionale è ricca di consolazioni”. 


Alessandra Corradini 1

testo e immagini a cura di
Alessandra Corradini

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