Il design è una forma d’arte?
a cura di Uto Balmoral
Proporre conoscenza, puntare su messaggi sociali, rapportarsi al progetto con tensione etica: è anche questa l’aspirazione di un designer.
“Non credo nel design, credo nelle idee”.
Se queste affermazioni guidano il mio lavoro creativo, qualche spiegazione in più ritengo sia d’obbligo per non rischiare di essere frainteso.
Che cosa intendo per idea?
La rivisitazione di un pezzo classico del quale si attualizzano i dettagli, i processi produttivi o le finiture può considerarsi certamente un’idea, una suggestione da coltivare e valorizzare. Tuttavia preferisco fare riferimento ad una sollecitazione più entusiasmante, legata al concetto di novità, qualcosa che prima non c’era e che s’impone come risultato della naturale attività creativa dell’ingegno umano (e sottolineo “umano”).
Qual è il sentiero da percorrere?
È quello della ricerca, dell’esplorazione: i tentativi e l’impegno che contraddistinguono la scoperta. E poi la volontà di percorrere sentieri dove si abbia la possibilità di osservare la realtà da punti di vista alternativi, non consueti.
Negli anni ‘90 Stefano Giovannoni, in collaborazione con Alessi, aprì la strada ad un design figurativo fatto di piccoli personaggi colorati dai nomi divertenti che riscossero un importante successo.
Non eravamo molto lontani dal periodo di Memphis e delle avanguardie e, probabilmente, fu la ragione per cui nessun storse il naso di fronte a questa novità.
Al minimalismo dilagante è seguita recentemente una fase che non mi riesce di definire se non attraverso i materiali proposti: un revival di ottoni e velluti alla ricerca di una eleganza classica che ammicca al lusso, per qualcuno non meritevole di appartenere al mondo del design.
Non è mio intendimento entrare nella recente diatriba riguardo a cosa sia degno di essere definito come “prodotto di design”: non è per me così essenziale.
Certamente nell’accezione più comunemente accettata, il concetto di design è associato alla ricerca di eleganza e bellezza ma, più recentemente, si è avvicinato prepotentemente all’idea di lusso, una parola che trovo quasi volgare.
L’attuale tendenza delle aziende è quella di proporre un total living, che offra soluzioni di continuità estetica tra i differenti ambienti della casa e che indubbiamente risulta essere commercialmente più invitante.
Ma qual è il limite di questa attitudine e quali sono state, e sono tuttora, le conseguenze?
A mio avviso il risultato di questo recente “approccio filosofico” della produzione ha portato ad un appiattimento del gusto e ad una sconfortante uniformità dei prodotti.
Sono convinto che il modo con cui una persona arreda la propria casa non debba essere diverso rispetto a come sceglierebbe e curerebbe il proprio abbigliamento: da sempre la moda è considerata una forma di espressione, una maniera e un mezzo per distinguersi e rivelare chi siamo.
Ecco, a me piace moltissimo il valore contenuto nella parola “distinguersi” e credo che questa intenzione debba essere assunta come obbiettivo primario nella nostra cultura dell’abitare, sebbene sia evidente che ciò risulti difficile da attuare e perseguire, immersi come siamo in un mare di proposte aziendali del tutto simili una all’altra.
Nell’attuale scenario del design made in Italy sembrano emergere due inclinazioni: se da un lato i designer quali Lissoni, Citterio, Dordoni -solo per citare alcuni dei più noti- hanno saputo definire uno stile sobrio ed elegante molto apprezzato e identificato all’estero come simbolo di italianità, dall’altro assistiamo a proposte che inseguono un design estroso, colorato, figurativo e “narrativo”.
Mi sono chiesto più volte quale sia la mia posizione di designer nel paesaggio contemporaneo o, perlomeno, quella cui ambisco.
Io credo, allineandomi al pensiero di Enzo Mari nel quale mi riconosco, che
il design possa considerarsi tale se produce conoscenza: anche attraverso di esso si possono lanciare messaggi di cui oggi la società ha bisogno.
A questo proposito cito letteralmente alcuni passaggi dell’intervista al Maestro pubblicata su Domus Web nel 2016:
[…] “tutto quello che si fa è politica, la differenza sta nell’esserne coscienti oppure no” – lo considerano intransigente, polemico e pessimista, mentre è esattamente il contrario: uno tra i designer più combattivi e pieni di speranza che esistano. Egli rivendica la sua duplice natura di artista, che agisce concretamente sulla realtà, e di filosofo. Mari lavora nel mondo degli oggetti, senza però dimenticare che questi dipendono dalle idee: “II primo problema di un progettista è quello di definire il proprio modello di un mondo ideale, e non quello di creare un’estetica… Il progettista non può non avere una sua ideologia del mondo. Se non ce l’ha, è un imbecille che dà solo forma alle idee altrui”.
E ancora:
[…] “La creatività è una messa in discussione della conoscenza” […].
[…] “Si progetta per difendere la libertà di pensare” […].
[…] “Tutti i grandi capolavori sono nati da una tensione etica. Se devo essere coerente con il mio ruolo di progettista non posso che rifarmi alla stessa tensione” […].
Viene da chiedersi, a questo punto, se abbracciare il pensiero di Enzo Mari, in fondo, non significhi affidare al design lo stesso compito che per secoli è stato associato all’arte.
Perché, forse, a rifletterci bene, il design è veramente una forma d’arte.
s f o g l i a l a g a l l e r i a
immagini archivio
ALESSI, ANTRAX, BOFFI, GUFRAM, MEMPHIS, QEEBOO, ZANOTTA