Claudio Bitetti, punto.
Il Pensiero che diventa Forma.
“Un giorno, in un’officina di fabbri posai una lampadina su un guanto appoggiato su di un bancone: involontariamente quel guanto si trasformò in un ironico svuota tasche. Oggi con questo progetto desidero ringraziare tutti coloro che, con le loro mani dense di conoscenza e sapienza, quotidianamente concretizzano i miei sogni e deliri”.
Così scriveva una ventina d’anni fa Claudio Bitetti per narrare la genesi di Mimì, un portaoggetti da parete prodotto da Minottiitalia, e ci sembra di poter dire che in quelle poche righe siano condensati gli elementi che caratterizzano il suo lavoro: uno sguardo ironico, e decisamente fuori dal comune, sulla realtà che è sotto gli occhi di tutti ma che lui sa trasformare attraverso un processo di sintesi che segue perfettamente -con coerenza e senza nulla sottrarre a significato e funzione– il fluire dei suoi pensieri.
Formatosi presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, Claudio Bitetti vive e lavora ad Aosta dove trova l’ambiente ideale per “scaricare” e trasformare in progetti tutte le suggestioni che riceve e distilla dentro e fuori della sua Valle.
Redazione
Claudio, a distanza di quasi vent’anni dalla mostra “La forza delle cose. Tradizione valdostana e design” (Aosta, 2003), curata da Alberto Fiz e Fulvio Irace, che ti ha visto partecipe accanto ad altri 12 designers (tra cui Sottsass, Mendini, Magistretti, Cibic, e Palterer) nel reinterpretare oggetti tipici della tradizione valdostana (sedie, pentole, grolle, slitte, girelli e cavalli a dondolo), cos’è cambiato? Che significa per te vivere e lavorare ad Aosta, che non si può sicuramente definire una capitale del design?
Claudio Bitetti
Aosta è il luogo dove riesco a dare un ordine a tutti gli spunti che colgo in giro per il mondo perché trovo la tranquillità necessaria per trasformare le idee in progetti. La mia costante ricerca del “nuovo” e del “diverso” associata ad un naturale attivismo non mi consentirebbero di avere quel tempo necessario per sedimentare e poi sviluppare i miei progetti nel caso in cui vivessi in una città, come è ad esempio Milano, che offre e ti travolge per la continua abbondanza, e sovrabbondanza, di stimoli.
Ovviamente si può prendere ovunque lo spunto per la realizzazione di un prodotto di design e, nel caso della mostra cui accennavi, a cura di Alberto Fiz e Fulvio Irace, il pretesto è stato la rivisitazione di oggetti tipici della Valle d’Aosta. Io avevo scelto il tema del cavallino a dondolo a cui ho tolto tutti gli elementi “non funzionali” mantenendo solo la parte basculante: il risultato è stato un manufatto che per le sue dimensioni, tre metri di lunghezza per 90 centimetri di larghezza, è stato completamente decontestualizzato e trasformato in un oggetto ludico per adulti. Il rimando al cavallo è stato affidato solo all’utilizzo di una pelliccia sintetica di colore bianco come rivestimento.
R.
Flaviano Celaschi, professore ordinario presso il dipartimento di architettura dell’università Alma Mater di Bologna, dalle pagine della rivista MODO, qualche tempo fa ha utilizzato per le tue proposte progettuali le locuzioni “doppio-senso” e “buon-senso”. Ti chiediamo, però, se non sia il caso, per alcune tue collezioni, di introdurre anche il termine “nonsenso”, non nell’accezione di “espressione priva di senso” o “assurdità” ma piuttosto per l’utilizzo di una delle tecniche che lo caratterizza che è quella dell’“inversione e del rovesciamento del senso comune”. Mi riferisco a proposte quali i contenitori “Notes”, al letto “Big Hug” e alle collezioni “Primalinea” e “Ziotom” per Mogg, oppure a “Mimì”e “Alto&Fragile” per Minottiitalia, la lampada a sospensione “900” per Antonangeli.
C.B.
Penso che una mia caratteristica sia lo sguardo che getto sulla realtà del quotidiano, uno sguardo che tende per sua natura a trasformare mentalmente ogni cosa che osserva in oggetto di “design.” una sorta di “ready made funzionale”, un’operazione per la quale cambiando la destinazione o l’uso trasformo l’oggetto in qualcosa d’altro.
La lampada 900 per Antonangeli nasce proprio da questa considerazione: riutilizzare le abat jour, classiche lampade d’appoggio, come lampadario a sospensione conferendogli un’immagine più contemporanea e investendole di nuovo senso.
Nel solco di quest’impostazione il progetto più riuscito, a mio avviso, è la collezione di contenitori “Alto&Fragile” per Minottiitalia. Sono partito dalle casse in legno utilizzate per gli imballaggi e recanti le classiche etichette necessarie per una corretta movimentazione del contenuto: la mia riflessione ha portato ad interrogarmi sul perché dovessi trasportare un mobile, da me disegnato, in un contenitore già perfetto in tutte le sue parti, sia quelle strettamente funzionali –condizione da cui ovviamente non si può prescindere- che quelle “comunicative” per il loro utilizzo. È nata così questa collezione!
Riguardo al letto “Big Hug” e ai contenitori “Notes” l’approccio è completamente diverso:
prendendo spunto da un interrogativo di Mies Van Der Rohe: “La forma e’ davvero uno scopo? Non e’ piuttosto il risultato del dare forma?”, ho disegnato un letto modellabile la cui forma e’ appunto il risultato del fare, di un fare che ti permette di modificare a piacere la sua struttura plasmandola, come se fosse creta, in un grande abbraccio. Alla stessa maniera Notes è un contenitore rivestito da fogli bianchi sovrapposti ed intercambiabili: sarà l’acquirente a plasmarli a suo piacimento, diventando parte attiva del progetto.
I miei progetti sono racconti, rappresentazioni di pensieri che si affacciano alla mente già nella loro compiutezza tridimensionale. la forma, i materiali e la funzione sono, solamente, il pretesto per renderli visibili.
Ad esempio la serie ZioTom disegata per Mogg sembra composta da mobili apparentemente casuali ed instabili , assemblati con materiali di recupero.
Al contrario questi contenitori sono minuziosamente disegnati e la loro realizzazione e’ alquanto complessa.
Questo progetto mette in discussione concetti quali: l’apparenza, l’essenza, la casualità e la causalità.
R.
Nel sito web della azienda Mogg si legge “MOGG ha un’anima ed un’identità ben precisa, fresca, curiosa che vuole stupire e stupirsi, alla ricerca di interlocutori capaci con le loro visioni (anche folli e sognatrici), con il loro entusiasmo, lavoro ed intuizione di apprezzare il nuovo e moderno concetto dell’abitare”. Si può affermare che la tua collaborazione con questa azienda si basi su quel simpatico adagio popolare “Chi si assomiglia si piglia?”
C.B.
Quando tengo lezioni di design nelle scuole dico sempre agli studenti che se un progetto viene rifiutato da un’Azienda non è detto che sia sbagliato in assoluto ma magari è semplicemente sbagliata l’Azienda cui è stato proposto. Ritengo che l’unico punto fermo, per un progetto, sia la “coerenza” all’idea iniziale, a quella scintilla che ha dato il via al tutto. Soddisfatta questa premessa il progetto risulta, di conseguenza, valido in sé e allora si tratta solo di trovare affinità con un partner che lo possa realizzare. Tutto avviene come per un qualsiasi incontro: se ci sono concordanza d’intenti e pensiero allora si prosegue nella frequentazione. Con Mogg è accaduto proprio questo e la mia collaborazione con l’Azienda dura dal suo esordio nel 2012.
R.
Claudio, questi due anni vissuti nell’emergenza pandemica hanno, secondo la tua percezione, realmente e definitivamente modificato il concetto di abitare.
C.B.
A mio avviso sono cambiate le priorità e i valori legati alla casa, sia da un punto di vista spaziale sia da un punto di vista più concettuale.
Indubbiamente giardini, balconi e terrazzi “vivibili”, elementi che fino a qualche anno fa appartenevano ad una cultura più elitaria, sono passati dalla sfera dei “desideri” a quella dei “bisogni” e questa è sicuramente un’indicazione che i progettisti dovranno tenere presente per il futuro.
Parlando più propriamente di interior mi viene invece da dire che la maggiore permanenza nelle abitazioni, che ha caratterizzato i mesi scorsi in seguito all’emergenza sanitaria, ha spostato il focus sulla casa dalle prerogative meramente funzionali (divano, letto, contenitori, servizi) a quelle “estetiche”, mettendo in luce nuovi aspetti, dettati ad esempio dallo smart-working, che non si erano evidenziati fino ad allora, per un vissuto ridotto solitamente alle ore serali.
R.
I confini tra design, scultura e arti grafiche sono molto labili ed è difficile dare delle definizioni esaustive: tu cosa ne pensi?
C.B.
Credo che la differenza sostanziale tra oggetto di design e oggetto artistico sia nella “funzione”, dove per funzione intendo quella pensata e voluta in origine dal progettista e non quella derivante magari da un uso improprio.
Mi spiego con un esempio che mi riguarda.
Nel 2005 sono stato invitato a partecipare, unico designer in compagnia di 9 artisti, ad una mostra d’arte presso La Fabbrica del Vapore di Milano, avente come titolo “Sotto la superficie – nostalgia dell’origine” curata da Marina Mojana e Giuliana Montrasio.
Mi era stato chiesto di realizzare un’opera che potesse fungere da contenitore dei cataloghi della mostra stessa. Dopo un iniziale sbigottimento mi sono interrogato sul tema proposto: ho assemblato un comò, una sedia ed un buffet degli anni ’50 che ho sommariamente verniciati fissandovi ante e cassetti in modo che rimanessero aperti. Qual è stato il risultato? Una scultura che fungeva “anche” da contenitore di cataloghi ma alla stessa maniera per la quale un sasso può funzionare come seduta, un ramo da appendiabiti o un lago da vasca da bagno.
R.
Hai un progetto particolare cui sei affezionato?
C.B.
Sono affezionato a tutti i miei progetti, ma uno a cui tengo particolarmente, anche per la risposta positiva che ha avuto sul mercato, è l’étagère Adelaide, prodotta da Mogg, sia ln legno che in ferro, composta da un piantone a base quadrata, girevole, a cui sono fissati in maniera asimmetrica sui 4 lati, 13 ripiani di due misure differenti. L’idea progettuale di questa libreria, a detta di molti “elegante”, è che, se in un sistema aumenta progressivamente il disordine (l’entropia) quando questa raggiunge una certa soglia critica, improvvisamente diminuisce e il sistema rinasce in un nuovo ordine.
R.
C’è uno studio su una grafica bidimensionale che conduci a priori per i tuoi progetti di design? C’è un riferimento alla psicologia della Gestalt per la base del tavolo da pranzo “Hotline” prodotto da Mogg? Ricorda molto certe figure geometriche, come il cubo di Necker, basate su illusione ottiche.
C.B.
No, non c’è alcun tipo di riferimento in questo senso. Anche se il risultato visivo può sembrare il medesimo, io sono partito da tutt’altre premesse che in questo caso non sono state quelle di confondere l’osservatore ma piuttosto di dargli la possibilità di vedere con maggiore chiarezza.
Per questo “racconto” ho preso in prestito il concetto cardine del Cubismo: ho disegnato un tavolo mostrandone da qualunque prospettiva lo si guardi la sua “quarta dimensione” intesa quindi non solo come dimensione spaziale ma soprattutto temporale.
Hotline è dunque la sintetizzazione di un tavolo in linee geometriche elementari che normalmente non potrebbero essere visualizzate simultaneamente.
R.
Oltre che di product design ti occupi anche di progetti di interior che riguardano locali pubblici, abitazioni private, allestimenti museali, per mostre e stand: come cambia il tuo approccio alla progettazione?
C.B.
Cambia totalmente! Se per progettare un oggetto di design il mio approccio ogni volta è quello di pensare a qualcosa di nuovo – attività che mi porta ad un continuo “stress creativo“- affrontare un progetto di interior significa per me dovere risolvere dei problemi circoscritti in uno spazio. E quando si ha a che fare con uno spazio circoscritto non c’è molto “spazio” per la soggettività: a prescindere dallo stile, che può piacere o meno, il progetto funziona oppure no. E quindi il percorso mi risulta facile, ovvio e naturale.
R.
Analizzando la tua produzione (citiamo come esempio le tre proposte per Dilmos – il paravento Hombres, il vaso Rosa Rosae, la consolle Louis05 – e il divano “Cartesiano” è sembrato di ravvisare la medesima raffinata ironia, che non è mai sconfinata nel divertimento fine a se stesso e che ha connotato tutta l’opera di Ingo Maurer nel campo della progettazione illuminotecnica. Esiste un riferimento in tal senso?
C.B.
Se penso al discorso del ready made allora ritengo che le mie abat jour sospese nella lampada 900 per Antonangeli siano concettualmente molto vicine, ad esempio, alla lampada a sospensione realizzata da Maurer con le bottigliette di Campari.
Cerco sempre di conferire ai miei progetti un valore che non sia determinato dalla preziosità dei materiali utilizzati o dalla funzione ma che sia, piuttosto, di tipo “concettuale”, così da riconoscere un elevato valore aggiunto.
Ad esempio per il divano Cartesiano per Alivar il concetto che ha sovrinteso il progetto è stato quello di voler sintetizzare in un unico prodotto il classico salotto a 1, 2 e 3 posti perché, in base a come lo capovolgi sul pavimento, puoi ottenere combinazioni di sedute a 2 + 3 posti, 2 + 1 posto e 3 + 1 posto. Sono partito semplicemente dall’estrusione degli assi cartesiani che appaiono sul foglio digitale di disegno di tutti i programmi CAD.
R.
Ci dai qualche consiglio di lettura?
C.B.
Sono un lettore atipico: impaziente e frettoloso, salto interi paragrafi degli articoli di giornale o capitoli interi dei libri. Inoltre non amo particolarmente chi da consigli!
R.
I nomi che scegli per i tuoi prodotti sono ironici, talvolta, e sempre coerenti con l’oggetto con cui si sposano. Per questo, a conclusione, vorremmo provare a sintetizzare nel titolo di questo articolo la nostra chiacchierata: Claudio Bitetti: ……….(completa tu!).
C.B.
Volentieri, ma prima devo fare una premessa e ancora una volta parto da qualcosa che mi riguarda da vicino. La caratteristica del divano IONOI, presentato da Dilmos nel 2001, era quella di poter essere composto liberamente perché basato sull’unione di due moduli di sedute imbottite paragonabili a sgabelli, di dimensioni pari a 33×33 cm con altezze di 44 e 74 cm. I moduli più alti fungevano da schienale e quelli più bassi da normali sedute. Con queste “cellule” si potevano realizzare, con la stessa semplicità, divani lunghi da uno a “enne” metri: ciascuna cellula rappresentava quindi la riduzione ai minimi termini del concetto di seduta senza che subentrasse alcuna perdita di senso, perché ogni elemento poteva essere utilizzato da solo se accostato ad un tavolo da pranzo oppure, per quello avente altezza maggiore, come sgabello per il banco da cucina.
Quindi sulla base di questo processo di riduzione senza perdita di senso che connota i miei approcci progettuali, fino a che punto ci si può spingere nel pensare ad una parola, una locuzione o una frase da far seguire al mio nome per il titolo di un articolo che sia la sintesi di questa chiacchierata?
“Claudio Bitetti, punto.”
s f o g l i a l a g a l l e r i a
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