Il design prima del design
a cura di Riccardo E. Grassi
I progetti di Piero Bottoni e le sue idee per la produzione in serie.
È senza dubbio poco ortodosso ma questa volta partirei dalle “Conclusioni”.
Il libro ricostruisce, con scrittura leggera, godibilissima, le tre esperienze milanesi che, negli anni 1930-1950, hanno coinvolto come ideatore, propugnatore ed eccezionalmente anche come imprenditore, Piero Bottoni, architetto, urbanista e “designer” ante litteram.
Tre vicende svanite per una congerie di motivazioni che il testo spiega molto bene e che avevano alla base l’ambizione dell’Autore di veder realizzata una serie di oggetti che oggi definiremmo “di design”.
Perché il design allora non c’era o, tutt’al più, ne avremmo ascoltati solo i vagiti.
Destino comune, quello che è toccato anche a Bottoni, che caratterizza chi approccia le cose del mondo come precursore.
Forse anche lui troppo in anticipo rispetto alla clessidra segnatempo? In anticipo su quella che in anni recenti è diventata un’autentica way of life? Cioè il design come marcatore di gusto, stile di vita, acquisto aspirazionale. Una filosofia di consumo che l’ha visto passare dal considerarlo un “nice to have” a un “must have”, privilegiandone il lato trendy.
Perché, per l’immaginario collettivo, se oggi un oggetto non trasmette l’idea di essere “di design” il nostro spazio domestico pare segnare il passo.
Un aspetto, quindi, dell’eclettica attività di Piero Bottoni che è stato trascurato ma che, oggi, si prende la rivincita con le pagine di “Il design prima del design” (La Vita Felice Editore): ricche di spunti ed estremamente documentate ci raccontano i fermenti creativi che tracimavano dalla sua matita.
Che stupore (invidia?) quell’istinto irrefrenabile che gli spinge la mano sopra il foglio per far nascere l’oggetto appena pensato: questo pensavo girando lentamente le pagine.
Infatti, se è vero che l’uomo è noto per l’ampia ed alacre attività di progettista e urbanista, è oltremodo rimarchevole che, misteri della vita, l’attitudine ad immaginare “oggetti e mobili da produrre in serie” è rimasta, come si dice, per pochi intimi, fini conoscitori. Tra questi, il curatore del testo Giancarlo Consonni (e i colleghi che ne hanno condiviso le fatiche, Graziella Tonon e Lodovico Meneghetti) che, con la pazienza (e la vista) delle migliori ricamatrici d’un tempo, ha riannodato, sistematizzato e portato alla luce una marea di documenti conservati presso il DASTU-Politecnico di Milano: me le immagino le sue mani che spostano, sfogliano, stendono le pieghe dei carteggi mentre le dita puntano i dettagli, trattengono la penna che annota priorità e caratteristiche, accarezzano la filigrana ingiallita.
Il testo appartiene a quella curiosa categoria di preziosi distillati che vengono spillati dalle migliori annate:
oltre 100.000 documenti costituiscono il Fondo a lui dedicato presso il Politecnico e qui, nel libro, l’introduzione chiarisce lo spirito del tempo, i guizzi stilistici e le intenzioni di Bottoni mentre i tre capitoli successivi approfondiscono le esperienze imprenditoriali originate dall’idea di tradurre il design in oggetto “concreto”, da replicare in una linea di produzione industriale
Ecco quindi narrate le vicende che hanno contrassegnato quegli anni di creatività disseminata su vari fronti. Bottoni si è spinto ad inventarsi oltre i prodotti anche le società/aziende che avrebbero dovuto occuparsi di realizzarli: K.N. (1936) che avrebbe raccolto in un catalogo gli elementi d’arredo messi a punto da un gruppo di progettisti, incaricato un “manager” che si sarebbe occupato di organizzare le attività, promosso l’apertura di un negozio per dare visibilità agli oggetti, coordinato produttori qualificati perché mantenessero i tempi di realizzazione e la continuità qualitativa dei prodotti ideati.
Tutti elementi, questi, che hanno caratterizzato anche le altre due esperienze di Bottoni (e colleghi) riguardo al tentativo di industrializzazione del design: vale a dire le società Ar-Ar (Architetti Arredatori società anonima – 1941) e A.P.E. (società per lo sviluppo e l’esportazione delle produzioni artigiane – 1944).
Le motivazioni che hanno vanificato la riuscita di queste intraprese, come si diceva, sono sfaccettate e po’ complesse, ma tre elementi maggiormente impattanti mi pare abbiano influito più di altri: come possiamo pensare che la guerra, in primis, non abbia divorato le migliori intenzioni? E poi: è possibile che tante buone idee ma così in anticipo rispetto ai tempi abbiano dovuto cedere il passo? Sembra un po’ quel ch’è successo col dagherrotipo: ha dovuto aspettare “il suo tempo” perché se ne comprendesse il valore e fosse poi tradotto in fotografia.
Peccato che questo stesso tempo non sia stato altrettanto magnanimo con l’arte di Bottoni.
Come terzo elemento mi sento di accennare quanto suggeriscono l’economia aziendale ed il marketing: vale a dire che il prodotto è l’incontestabile base di partenza ma esso deve anche possedere caratteristiche tali da distinguersi per originalità e novità rispetto ai concorrenti.
Subito dopo occorre organizzare gli anelli che ne compongono la “catena di valore”. Quindi: la produzione fisica, la distribuzione (commercializzazione), la promozione (pubblicità).
Comprese le dinamiche accennate nel libro si può pensare (e vedere) come le folate creative non siano mancate ma, addirittura, abbiano rappresentato autentiche novità per l’universo domestico di allora, tanto da considerarle tuttora moderne: scelte decisamente coraggiose, fuori dalle tradizionali modalità dell’abitare o del lavorare (mobili ed arredi per uffici, per esempio), capaci di sconfiggere l’effimero delle apparenze per far corrispondere anche un nuovo senso estetico.
Ecco, sembra siano mancati questi ultimi fattori, proprio come ben sottolinea Consonni, cioè “che l’affermarsi dell’industrial design passerà infatti attraverso la separazione (ideativa, produttiva e commerciale) del singolo oggetto dall’insieme coordinato di elementi d’arredo. Perché prenda corpo quel variegato universo che possiamo chiamare “il sistema design”, sarà necessario che i produttori, attraverso una distribuzione affidata a showroom e poi con propri punti vendita (non senza l’apporto fondamentale della pubblicità), impongano sul mercato oggetti singoli realizzati in serie” (p.31).
L’indagine che svolge Consonni, documenti alla mano e approfondite ricostruzioni, soddisfa con una scrittura vivace e coinvolgente non solo la conoscenza ma persino il lato curioso di queste vicende, quasi che possedessero un che di seducente e poetico pur negli obbligati “tecnicismi”.
Si rivive un’epoca ma se ne rimpiangono pure gli esiti progettuali di Bottoni:
sembra svelarsi un’alchimia fisica dietro al piacere della lettura, una suggestione tattile e visiva così confortevole che ci fa percepire questi oggetti come già ci appartenessero.
Vorrei ora fare un veloce passo indietro. Piero Bottoni progetta Casa Mercadante a Milano ed un manipolo di ville a Reggio Emilia, Livorno, Imola (con Mario Pucci): sono solo alcuni esempi di architettura che segnano il suo “stile”, interpreta con originalità e rigore il razionalismo mantenendo un personale tratto distintivo.
È con la sistemazione di via Roma a Bologna, impostata insieme con altri colleghi, che assistiamo ad una sorta di rottura dei canoni architettonici “tradizionali”; da quel periodo in poi egli allarga il respiro col piano urbanistico del quartiere QT8 a Milano e con l’impianto di Siena, Mantova, Ferrara (solo per dirne alcuni) che assorbe il dettato della lezione razionalista modellandolo sui valori della città storica.
Nello stesso periodo ipotizza i progetti per case d’ispirazione borghese destinati sia “alla classe operaia che del ceto medio”, non lontani quindi dalla lezione della cucina di Francoforte ma, usando le parole di Consonni, conferendo “una gioiosità e un’aria trasognata che si fanno insieme sentimento della casa e interpretazione dello spirito del tempo”.
Un salto temporale (siamo nel 1936) e tematico lo porta a tratteggiare “l’ufficio per piccole aziende a orario unico” che già la definizione, letta oggi, restituisce un sorriso di simpatia e nostalgia.
Il focus del testo, tuttavia, ci riporta all’architettura d’interni, dei mobili e degli oggetti d’arredo, la coté meno nota del grande architetto: in questo senso le sue esperienze emergono dalle intense frequentazioni della Triennale di Milano e dei suoi protagonisti, lui regista di grande esperienza e di sapienza immaginifica. Di vitalismo desiderante.
L’humus nel quale vivono e si alimentano in quel periodo le urgenze espressive di Bottoni e colleghi sono ben riassunte da uno scritto di Ernesto N. Rogers il quale, tra i suoi bersagli, individua il pericolo di un abuso del concetto di gusto: le loro produzioni, scrive, devono scansare questa minaccia. Aderendovi, anche involontariamente, potrebbe a quel punto aprirsi la strada a un facile inseguimento della moda, a scapito di una ricerca di senso, di uno scavo rigoroso.
Ecco, questo è un altro “dettaglio”, serio e non convenzionale, che il design moderno ha forse un po’ dimenticato.
Ma non è finita qui: il palinsesto iconografico non ci parla solo di architettura bensì, felix culpa, l’esegeta Consonni si circonda e ci mostra anche i carteggi, i disegni di abiti da signora, gioielli, mobili e arredi, scrivanie per ufficio, lavorazioni tessili, apparecchi radio, lampadari, lavori di grafica, pitture di paesaggi e ritratti, sculture e progetti di fontane, portadolci componibile, poltrona per sala d’attesa di studio medico, mobili per la cucina nella “Casa Elettrica”.
L’esito è qui da vedere: ma che sorpresa! Uno “spettacolo di arte varia”, per dirla con le parole del cantautore Paolo Conte.
Osservando le foto, i disegni e gli abbozzi che compaiono in questa nutrita seconda parte del testo mi ritrovo percorso da due sentimenti opposti: dispiacere per la possibilità mancata di vederli effettivamente prodotti e distribuiti sul mercato (tranne qualcuno, beninteso) ma pure di meraviglia per le soluzioni adottate, per la novità (in quei tempi!) degli oggetti, per la modernità del tratto, per le vampe creative che hanno guidato la sua mano, per l’uso dei materiali (il tubolare metallico, per esempio).
E poi le radio: anche quelle andavano progettate e rese “di design”, perché non sono solo contenitori di fili, altoparlanti e valvole.
Lo dichiara bene Consonni durante il nostro colloquio telefonico: “Bottoni ha lasciato un segno personalissimo e anticipatore al riguardo, così come è di estrema rilevanza considerare l’arredo delle case popolari, lui primo a porre la questione della bellezza per tutti”.
Curiosissima la pagina pubblicitaria di Domus (agosto 1933) che invita a considerare l’acquisto di una “Consoletta” con questo slogan: “Deciso l’acquisto di un apparecchio radio, date la preferenza ad una supereterodina C.G.E. !”, con tanto di esclamativo finale. La descrizione completa il prodotto: “Otto valvole in mobile razionale di palissandro ed acero bianco, ripiani inferiori, finiture cromate”. Interessanti anche le modalità di pagamento: “In contanti lire 2.400. A rate: lire 480 in contanti e 12 effetti mensili da lire 170”.
È proprio compitando questi disegni che m’accorgo quanta perizia sia riposta in quel “saper fare” che, ancora oggi, contraddistingue il nostro made in Italy.
Certamente, prima di tutto è la ricerca della linea ideale, del tratto che si fa definitivamente progetto dopo che tanti schizzi sono rimasti sul campo ma, subito dopo, stupisce quando quello stesso tratto diventa “prodotto” grazie alla relazione ineguagliabile tra aziende produttrici e artigiani di vaglia, senza dimenticare che, alla fine, quell’oggetto verrà acquistato e completerà la nostra casa.
La differenza sta qui: nella capacità che questi prodotti non rimangano un mero esercizio di stile ma che anticipino lo sguardo, che sopravvivano alla loro epoca.
Il libro di Giancarlo Consonni possiede quest’ulteriore merito: descrivere e farmi capire.
Il lavoro del designer Piero Bottoni mi ricorda il pensiero di Protagora quando dice che l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono.
Cosa il filosofo davvero intendesse è stato a lungo dibattuto, tuttavia è oggi opinione sufficientemente consolidata che noi siamo, secondo il suo pensiero, l’unico “metro” con cui metterci in relazione con la realtà: ciò che percepiamo coi nostri sensi è compreso, condiviso, vero.
Bottoni, con i suoi elementi di design, sembra aver incarnato impavidamente proprio questo: ha preso l’essere umano e gli ha progettato le cose.
Non “su misura” ma a “sua” misura. Con equilibrio, concretezza e poesia.
s f o g l i a l a g a l l e r i a
“Il design prima del design”
di Giancarlo Consonni
urbanista e storico dell’architettura
editore: LA VITA FELICE
immagini
DATSU
Politecnico di Milano