Concorso ex frigoriferi Cuneo collaboratori F. Antonelli L. Bressan M. Crippa L. Ratti M. Sturlese A. TamburriniAlexa Tamburiini Crippa Lucia Ratti Mirco Sturlese04 e1734019940887
Architettura,  Design

Luciano Crespi: sull’abbandono del costruito

a cura di Riccardo E. Grassi

La conversazione con l’autore de “Il design del non-finito”: una sintesi di architettura e nuove interpretazioni per il riuso degli spazi.

Attivo il collegamento e, come mi sollecita la piattaforma, consento “questa volta” la videocamera, poi “questa volta” anche il microfono.

Non posso nascondere il mio impaccio, c’è da augurarsi che il monitor lo stemperi: ho trascorso i primi dieci, quindici minuti in balia di quel “piacevole disagio” che sempre mi raggiunge quando ho di fronte una persona di riconosciuta caratura, il “piacevole disagio” della soggezione.

Luciano Crespi, fino a poco tempo fa docente di design al Politecnico di Milano, ci dedica un paio d’ore della sua giornata per approfondire un tema che gli sta a cuore e che mi ha intrigato già dal suo primo testo: il design del non-finito.

Apro la conversazione con una domanda che avrei sempre desiderato porre se, un giorno, mi fossi rivolto ad un maitre à penser o ad un creativo, rapinandola a Vargas Llosa, scrittore peruviano: “Qualsiasi opera, anche un capolavoro, è sempre una sconfitta nell’intimo di uno scrittore, un prodotto molto al di sotto del culmine che si era proposto di toccare”. Ebbene, quell’occasione è arrivata e la domanda è lì sul tavolo, tutta per lui.
Crespi sorride, l’espressione del volto e il silenzio anticipano il suo pensiero, si vede che sta ripercorrendo con la memoria i progetti che ha promosso. Infine ci rivela che sì, che la frase di Vargas Llosa vale pure per lui.

“Sono stato docente di Architettura” ci dice “e successivamente sono passato a Design, nello specifico al Design degli interni. Ebbene da allora ho sempre avuto la fortuna di collaborare con colleghi che hanno abilmente tradotto le idee, le prime elaborazioni, i miei abbozzi nei concreti volumi che sarebbero poi stati realizzati. In effetti, se ci penso oggi, qualcosa avrei cambiato, fatto diversamente, ma non alla luce delle mie convinzioni attuali perché a posteriori, con la voce dell’oggi, è tutto più facile. Piuttosto per la formazione dei dettagli: ecco, cambierei qualche particolare, però l’impianto generale del progetto lo confermerei senza incertezze”.

Il professore s’arresta in una breve pausa, la impone il suo gatto a macchie bianche e nere che attraversa con serafica compostezza la tastiera ingombrando il monitor, poi termina: “Non so com’è il mestiere dello scrittore tuttavia credo che ognuno, comunque, tempo dopo possa considerare l’eventualità cui accenna Vargas Llosa, ma tempo dopo. Soprattutto, se è vero che quarant’anni fa sono partito da lì, cioè da progetti che prevedevano nuove edificazioni, e visti i tempi era fatale che fosse così, è tuttavia più che mai vero che la mia attenzione negli ultimi anni si è spostata integralmente sul difendere il recupero, cioè

di fronte ad un pianeta che sta collassando, non consumare materie prime e suolo diventa prioritario”.

Il discorso è spoglio di qualsiasi retorica sentimentale e aggiunge: “Il mio è pragmatismo …è quanto sostengo con il design del non-finito”.

Ha partecipato a più di cento concorsi, dice senza sfoggio, con misurata cognizione, molti vinti, in taluni scartato, in altri la meritata menzione: un bottino che parla da solo. E mi incuriosisce l’aspetto concreto della faccenda: “Disegna a mano o utilizza programmi digitali?”, chiedo.

Non esita, divertito risponde: “Ho il tecnigrafo di un mio vecchio zio, non ci rinuncio, tra le dita la matita. E poi la carta gialla, rotoli che mi vengono da un’amica, da New York. Amo le assonometrie ma, soprattutto, mio fratello mi “illustrava” i progetti, lui il migliore disegnatore che abbia conosciuto: le sue prospettive all’acquarello hanno accompagnato ogni mio concorso, gli devo molto”.

Il suo tono di voce è percorso da una debole “erre” che increspa delicatamente le parole con una dizione che pare francesizzante: concordiamo sul fatto che, sotto i nostri occhi,
in ogni parte d’Italia, si affacciano sempre più spesso costruzioni e luoghi inabitati, desolati, sfiniti da temperie e trascuratezza, che dichiarano la fine della loro funzione.

Fabbricati di varie dimensioni, di cui sono rimasti solo gli afrori, che l’uomo sembra voglia dimenticare o disconoscerne il valore, annullarne la possibilità d’un rinnovato utilizzo. Questo stato d’abbandono ha conosciuto un’accelerazione esagerata in questi ultimi dieci anni. “Le cause?” gli chiedo.

 “Molteplici…” risponde “… un cortocircuito tra denatalità, crisi industriale, svuotamento dei piccoli centri a favore della città, difficoltà nei collegamenti, dinamiche socioculturali. E’ tutto un campo e controcampo fra storia d’Italia e storie familiari che hanno, via via, raggrinzito le possibilità di recupero e riuso di edifici ormai a fine corsa”.

L’ambizione di Crespi è tanto semplice quanto, di questi tempi, anticonformista

poiché, oggi, è più facile demolire e riedificare: il design del non-finito, invece, entra in questo limbo immobiliare e stabilisce dei criteri, mostra un percorso, sollecita un’azione.

Mi accenna ad un illuminato collega, Andrea Branzi, che molti anni fa aveva teorizzato la No-stop City, una sorta di griglia edilizio-architettonica dove la città, per paradosso, prendeva le forme di una struttura residenziale continua, infinita.

Ebbene, salviamo la provocazione intellettuale ma mettiamo mano a questo patrimonio edilizio esausto:

“Ecco da dove nasce l’idea del mio nuovo libro dichiara il professore “è obbligatorio, oggi, fermarsi e recuperare l’esistente. Ecco la ragione del titolo Stop city now: dobbiamo esitare prima di costruire ancora, riprendiamo quanto è stato edificato e abbandonato. Usiamo quello che c’è. Con un’avvertenza, però. Che architettura e design non diventino uno stile, devono incarnare un’anima, un pensiero”.

Comprendo l’ardore interpretativo quando riferisce di Alessandro Papetti, artista italiano che ha posto al centro della sua opera il tema dell’abbandono: lo nomina, ne condivide l’afflato spillando le parole a Massimo Recalcati che cita con ottima memoria (di cui periodicamente io perdo le tracce e mi sento invidioso): “Ricordare non è mai solo riprodurre quello che è stato ma reinterpretarlo, farlo nascere una seconda volta, renderlo nuovamente vivo.
La memoria non è tanto replica del già stato, riproduzione, ripetizione, ma creazione, invenzione”
.

Qui agisce Luciano Crespi: in quel sottile spazio che separa la nostalgia dall’occasione di capire meglio la genealogia di certi immobili ed intervenire con cognizione.

Simili iniziative e aspirazioni, sostiene, sono ormai transfrontaliere: gli architetti austriaci, nel 2020, hanno organizzato un ciclo di conferenze dal titolo Stop building now, gli olandesi hanno promosso un’iniziativa simile.

 “La questione del recupero e riuso è ormai irrinunciabile e non rinviabile…”

incalza ancora Crespi “…anche l’amico Michele De Lucchi ha rilasciato un’intervista, durante lo scorso Salone del mobile, nella quale invita al riutilizzo, ad affrontare questi immobili abbandonati con un approccio di tipo temporaneo, allestitivo”.

Guidato dalla passione, ispirato dagli anni trascorsi in cattedra e dalla volontà di dare una risposta a questa anemia manifatturiera e demografica che ha progressivamente tolto la vita a numerose proprietà immobiliari, Crespi vuole innanzitutto mettere ordine:

04. COPERTINA LIBROIl non-finito va distinto dall’incompiuto. Quest’ultima espressione definisce quegli immobili che, volutamente e per mille ragioni, non sono stati testimoni di una dichiarazione di fine lavori. Abbandonati senza essere mai stati utilizzati: poveri d’intonaci, senza o con poche tramezze, lo scheletro armato dai ferri a vista di pilastri, travi, solette … e una tristezza infinita che avvolge loro ed i luoghi circostanti”.

Quali i motivi?” gli domando. “Chissà…” sospira “…forse il proprietario aveva terminato i fondi, forse il costruttore è fallito, forse la costruzione è rimasta pendente per irregolarità urbanistiche … rimane il fatto che l’edificio è lì con la sua struttura atassica, senza un futuro. Al contrario, il non-finito è un immobile che, per anni, è stato adoperato, modificato, reso aderente alle progressive e mutate destinazioni d’uso ma che, in un recente passato, è stato spogliato delle sue funzioni e conserva tutte le finiture dell’ultimo periodo, memoria ed ammaloramenti compresi. Il non-finito recupera il dismesso, intende suggerire l’andatura architettonica e la voce propria del design proponendo un carattere alternativo, non compiaciuto, e funzioni coerenti per i tempi moderni. Gli ambienti e l’intero edificio ricominciano una nuova vita”.

Mi spiega che sperimentare il non-finito non significa semplicisticamente lasciare negli “avanzi” di questi edifici qualche muro scrostato, i pavimenti un po’ sconnessi, qua e là scalfitture e crepe, rassettando il tutto perché comunque la polvere non vinca.

Usiamo l’esistente, d’accordo …” continua seguendo un suo disegno interiore “… ma come? Si può fare in modo diverso?.

Perché il ragionamento che propone Luciano Crespi, peraltro rinnovato anche nella recentissima versione inglese (Regeneration of abandoned spaces: a new design approach – Bentham Books), punta a stabilire un pensiero e dei criteri, rifugge l’idea di uno “stile di finitura” o dalla ovvia formula della “ristrutturazione edilizia”.

È questione di consapevolezza, le sue parole sembrano richiamare un’attitudine civica verso una realtà sempre più prorompente composta dall’eredità materiale di immobili sgualciti e un’altra immateriale fatta di storie, passioni e persone che rischiamo di perdere.

Ci vuole la sua energia e il suo tratto “filosofico” per affrontare questo tema sempre più incombente: immobili, aggiungo io, che sono ormai soffocati dalla propria natura di “singolarità”, cioè nati per determinati scopi, realizzati nelle “misure” a quel tempo funzionali, calibrati su precise dimensioni lavorative o abitative, quindi spesso di difficile e moderna collocazione, vendita, riuso e ripristino in relazione ai codici di oggi, alle esigenze di un mondo che nell’arco di pochi anni fatica a riconoscere se stesso.

“Come reagiscono le Amministrazioni locali quando lei propone questa modalità d’intervento?” lo sollecito un po’ provocatoriamente.

Gli Uffici Tecnici non sono preparati a vedere in modo diverso … quindi il non-finito disorienta, anche semplicemente per una serie di questioni impiantistiche” risponde.

La rigidità di certe normative non aiuta, spesso anche i Proprietari degli immobili faticano a recepire il valore dell’intervento”.

Chiedo se ha sottomano un esempio. Non esita, lo sfodera in un attimo, con precisione: “In un concorso per la riqualificazione del comparto detto Frigoriferi Militari, a Cuneo, abbiamo proposto un linguaggio architettonico e un intervento di non-finito che seguivano questa linea di pensiero e che, tra l’altro, considerava l’arco di validità di tale riqualificazione: un orizzonte temporale che prevedevo utile, al massimo, per i successivi dieci anni, un allestimento quasi temporaneo. Il motivo s’intuisce facilmente: cosa saremo fra un decennio? Quali esigenze e funzionalità saranno ancora in voga? Non dimentichiamoci che siamo reduci da un uragano chiamato Covid che ha stravolto abitudini e vite… in poco tempo è successo l’imprevedibile, quindi il pensiero che guida questo tipo di interventi non può che tenerne conto. Il non-finito contempla una sorta di provvisoria durabilità, pensa a contenere i costi poiché consideriamo, a priori, che quell’immobile potrà subire ulteriori rivisitazioni per i cambiamenti in atto tra il breve e medio periodo. Il nostro intervento a Cuneo ipotizzava costi per circa mezzo milione di euro proprio in relazione a queste dinamiche ed alle modalità di esecuzione; il vincitore del concorso ne aveva messi a budget circa cinque milioni. La Proprietà, indecisa, non ha proseguito. Oggi è tutto lasciato com’era. Comprendo a questo punto il motivo per cui il professore riferisce, nel suo libro, quasi unicamente esempi di realizzazioni “fuori porta”.

E aggiunge:

“Non è una piega esterofila la mia, tutt’altro … la verità è che in Italia, in questo senso, si fa ben poco o, meglio, quasi nulla”.

Ho un’altra questione che non riesco a sedare e può apparire un po’ appuntita: perché, lo interrogo, ho l’impressione che in questi ultimi dieci anni lo stile architettonico sia diventato “omogeneo” fra i vari progettisti, abbastanza uniformato? Cioè: una partitura dalla ritmica ortogonale, una continuità lineare che interseca i vari piani riproducendo un disegno squadrato, che vede un massiccio utilizzo di cristalli, parapetti in vetro, vetrate esagerate, ecc.  Pare che l’ispirazione, chiamiamola così, sia comune a tutti i progettisti, eccessivamente condivisa, contaminata (appiattita?) su forme e modalità “internazionali”, architetture che potrebbero sorgere a Chicago come a Bologna o a Bruxelles. Una composizione senza dubbio accattivante che però sembra strizzare l’occhio più al lato “artistico” delle facciate che su altro: mi perdona questa mia, bonaria, intemperanza?

Le rispondo con le parole di Franco Purini …” sorride spingendo delicatamente il suo gatto sul lato opposto del monitor “…che suonavano press’a poco così: l’architettura attuale si trova costretta a mettere in secondo piano i suoi contenuti più specifici quali, ad esempio, il suo essere principalmente uno spazio abitabile e rincorrere invece un repertorio nel quale elementi eterogenei e formali si fondono con suggestioni quasi emotive… ebbene, io penso che l’architettura sia diventata una sorta di mass medium che ambisce a comunicare sensazioni ed emozioni, una specie di effetto wow, contrariamente a quanto dicevano Argan e Zevi, di cui condivido il pensiero, cioè non esiste architettura se non c’è un interno … il tutto si ridurrebbe perciò ad essere un monumento, bello e intrigante quanto vogliamo ma un po’ fine a se stesso. E’ quanto recentemente m’è capitato di vedere in una guida di architettura: quasi mille pagine di immaginette di edifici visti da fuori … è parziale l’idea di comporre un libro di questo tipo mostrando semplicemente le facciate esterne, occorre invece compitarle con quanto si è realizzato dentro”.

Considerando la mia conclamata ingenuità non immagino subito dove voglia arrivare, tuttavia ci impiega un attimo a tracciarmi il finale:

“Altrimenti succede quello che oggi è sotto i nostri occhi: una progettazione che oscilla tra il convenzionale ed il modaiolo, in uno stile internazionale che unifica gli edifici in tutto il mondo ma che smarriscono le loro specificità, ormai simili da Oriente a Occidente. Uno stile che sfocia poi in quella che io chiamo, con benevola ironia, la sindrome della finestra sparpagliata: bucature nelle facciate che sembrano gettate lì quasi casualmente, dove allineamenti e prospetti vengono sovente messi in discussione. Non si può generalizzare, è ovvio, tuttavia mi pare che in anni recenti si sia diventati fin troppo fantasiosi nell’inventare forme spesso senza corrispondenza funzionale con lo sviluppo del layout degli interni, dove peraltro non vedo innovazione, o dove talvolta si fatica a comprendere, osservandone le facciate, se si tratti di abitazioni o altro”.

Ritengo anche, nel mio piccolo, che sia difficile intervenire su modelli abitativi così consolidati come i nostri o sbaglio?

“Certo, non è facile …” dichiara “… ma occorre esplorare qualche itinerario alternativo. Noto un ritardo sul tema dell’abitare, contrariamente a quel ch’è successo per i musei che sono stati molto efficacemente reinventati.

Gli argomenti attraversano i minuti a nostra disposizione come un alito di vento: il tempo se li è mangiati senza che potessi soddisfare tutte le mie curiosità, peccati di gola che Luciano Crespi mi usa la delicata cortesia di poter esaudire rivedendoci prossimamente. Lo prendo in parola, il suo gatto a macchie bianche e nere ne è testimone.

Una schietta chiacchierata che ha spostato la mia attenzione sulla possibilità di osservare questi immobili logorati dall’incuria verso una sorta di buon uso delle rovine.

È un’interessante sollecitazione, questa del professore, che mi ricorda una frase di Clive S. Lewis:

“Non puoi tornare indietro e cambiare l’inizio, ma puoi iniziare dove sei e cambiare il finale”.


ospite
LUCIANO CRESPI

immagini
Todor Todorov,
archivi Frigoriferi Cuneo,
cartiera Burgo di Marzabotto

s f o g l i a l a g a l l e r i a


folderonline antracite

Hey, ciao 👋
Piacere di conoscerti.

Iscriviti per ricevere i nuovi articoli direttamente nella tua casella di posta non appena vengono pubblicati.

Accetta i termini sulla privacy

Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.