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Outdoor,  Paesaggistica

La diffusione del prato sintetico

a cura di Alessandra Corradini

Quando ci vuole …ci vuole?

Il prato sintetico non è una novità, quel che c’è di nuovo è la sua grande diffusione degli ultimi anni, diciamo gli ultimi dieci, in modo particolare.

Confesso che non mi intendo di prato artificiale. Posso dire di averlo usato una sola volta, una decina di anni fa, nel piccolo cortile d’ingresso del mio studio. Ho coperto una gettata in cemento un po’ ammalorata che il padrone di casa non aveva alcuna intenzione di sistemare.

La mia necessità era di una prestazione alta, in fretta, perché quella zona era l’ingresso da cui passavano i clienti, proprio la prima impressione che chiunque, entrando, avrebbe avuto. Sono stata, dunque, una semplice fruitrice e ho curato il mio praticello settimanalmente, perché lo volevo pulito e in ordine, come fosse appena rasato. A Milano, al piano terra, accanto al Campus Bovisa Politecnico, giusto per fornire tutti i dati del contesto, l’erba si sporcava molto e andava lavata almeno una volta alla settimana.

Come? Con un detersivo, un rastrello e la canna dell’acqua. Sopra a questo minuscolo prato finto avevo appoggiato enormi vasi con piante di Buddleja, un’Akebia quinata e una pianta di Nandina.

Insomma, posso dire che mescolare l’artificiale con il naturale aveva grandi vantaggi in termini estetici, perché davvero il prato pareva ancora meno sintetico.

Un giorno ho visto movimenti strani, ho alzato il manto in un angolo un po’ nascosto dietro ai vasi e ho scoperto mille insetti appena nati nella loro calda e scura nursery: un kafkiano esercito di scarafaggi, per i quali ho preso provvedimenti stragisti.

Poi c’è stata la faccenda hitchcockiana delle migrazioni autunnali degli uccelli e lì ho imparato, fin dal primo anno, che avrei ciclicamente avuto un periodo in cui i miei interventi di pulizia da necessari sarebbero diventati urgenti.

Anche la colonia felina protetta del quartiere passava sempre di lì in inverno, perché trovava qualche crocchetta e un luogo tranquillo in cui fare ciò che doveva.

In estate, tutti gatti senza stivali, si guardavano bene dal venirci a trovare, perché il sole che batteva diretto sul prato lo rendeva rovente. I mici, infatti, preferivano il Politecnico e i suoi prati veri, umidi e freschi.

Posso dire per esperienza, quindi, che chi decide di mettere un prato sintetico, anche il più bello e costoso, non potrà scordarselo.

Non potrà pensare che è fatta, che quando vengono gli amici l’erba artificiale sarà lì ad accoglierli come fossero i diciannove campi di Wimbledon.

Certo, il mio discorso va contestualizzato, probabilmente su un terrazzo nuovo non ci sono colonie né di gatti, né di scarafaggi attratti dall’umidità di un cortile dei primi del Novecento.

Restano le migrazioni degli uccelli, gli agenti atmosferici e l’inquinamento presente nell’aria, poi non saprei dire che cosa capita se siamo al mare e c’è la salsedine o se siamo a duemila metri e il sole non scherza.

Ho lasciato quello studio, non ho mai più fatto uso di prato sintetico e oggi sono qui a mettere il mio pentimento nero su bianco.

La piccola gettata di cemento ammalorata si sarebbe notata pochissimo con la meraviglia delle Buddelje diventate giganti, dell’Akebia salita di un piano e della Nandina piena di bacche e di foglie dalla mille sfumature.

Anzi, sarebbe stata una dimostrazione di quanto potere ha il verde che cresce di fare crescere, nel tempo, anche il valore di un edificio, seppure imperfetto.

Adesso capisco che allontanarmi dall’esperienza della natura, limitandomi a simularla, non mi ha portato alcun beneficio,

se non quello di un apparente e momentaneo controllo, come se il prato fosse cristallizzato nella sua perfezione.

La verità, però, ho imparato che è un’altra: se tutto cambia, cambia anche il prato sintetico.

E questa illusione di controllo senza beneficio porta a una frustrazione: non avremo la consolazione né dell’esperienza, né della bellezza, né della natura, perché la nostra scelta artificiale le ha escluse tutte.

Posso, quindi, concludere che nemmeno il prato sintetico resta perfetto nel tempo, lo giuro.

I numeri, intanto, raccontano una diffusione enorme dell’erba artificiale e la previsione di una sua ulteriore crescita, soprattutto nelle grandi città del mondo, quelle notoriamente alla ricerca di un maquillage continuo, in tempi stretti.

L’accelerazione della domanda è data dalla fretta di ottenere un risultato immediato, dall’ossessione per la perfezione estetica e dal fatto che circondarsi di verde è di moda, anche in versione artificiale.

Pochi conoscono o pensano alle mille alternative al prato e a scelte che tengano conto della biodiversità. Pochissimi sperimentano il metodo xeriscaping (un’alternativa paesaggistica “asciutta”, in cui si usano piante che bevono poco, sassi e strategie per non sprecare acqua) che toglie voce ai produttori di prato finto, quando ci ricordano che non consuma acqua.

Quella che negli anni Sessanta era una soluzione di scarsa qualità estetica in ruvido polipropilene, adottata negli impianti sportivi, ora è un prodotto in soffice polietilene che non capiamo se naturale o artificiale, finché non lo tocchiamo.

Sta di fatto che il prato sintetico è brillante, smeraldino, reperibile a costi per tutte le tasche e sembra una bacchetta magica con sembianze naturali: che cosa vogliamo di più?

Sarebbe tutto perfetto, se non fosse che questo simulacro dell’ecologia è paradossalmente anti-ecologico.

Sui campi sportivi sintetici ci sono studi recenti che analizzano i possibili danni all’ambiente e all’uomo. Ci si interroga sui materiali di riempimento che spesso sono prodotti con pneumatici di scarto, la cui gomma contiene contaminanti organici e metalli pesanti che possono volatilizzarsi nell’aria o percolare nel suolo. Si studia anche l’erba che, usurata e dilavata, rilascia particelle di microplastica che finiscono nel suolo e nell’acqua.

Vi lascio le parole di Tom Stanton, ricercatore alla Loughborough University: “Queste particelle possono essere ingerite da organismi a cui causano danni fisici, possono rilasciare nell’ambiente sostanze chimiche nocive associate alla loro produzione e possono fungere da vettori per altri inquinanti nell’ambiente

La fine microscopica delle particelle di cui sono costituiti i prati sintetici pare sia proprio questa, ma c’è anche una fine macroscopica su cui è necessario interrogarsi:

quanti metri, chilometri, ettari di finti manti erbosi ci troveremo a dover smaltire in futuro?

I nuovi prati ibridi, in parte sintetici e in parte naturali, non sembrano limitare i danni, perché al problema dell’inquinamento da plastica aggiungono la necessità delle irrigazioni, delle concimazioni e dei trattamenti curativi; ci allontaniamo, quindi, dal risparmio idrico e dalla speranza di avere trovato una soluzione.

Gli studi rilevano anche i limiti ambientali dei campi sportivi naturali e delle grandi superfici a prato ad alte prestazioni (ad esempio i campi da golf e da calcio professionali); infatti, erbicidi, pesticidi e fertilizzanti hanno un ruolo sempre più consolidato nell’inquinamento dei suoli.

La sensazione è che più cerchiamo una soluzione perfetta, più ci allontaniamo dall’esperienza della natura e più la perdiamo di vista.

Eppure la natura sta lì a mostrarci che esiste un avvicendarsi delle stagioni, esistono fioriture e sfioriture, chiome rigogliose e chiome spoglie, esistono piante che d’inverno spariscono completamente per tornare a primavera.

Se desideriamo ammantare il mondo intero di prati sintetici significa, dunque, che ci siamo messi in testa di poter fare meglio della natura la quale, ai nostri occhi, non appare perfetta e va migliorata?

Io penso che scarafaggi, uccelli e gatti si chiedano come facciamo a non vedere che il prato sintetico è brutto anche quando è bello.

Non siete convinti? Calpestatelo a piedi nudi, la prossima estate.

Ringraziamenti:

Ringrazio il professor Francesco Ferrini* per il prezioso suggerimento, senza il quale non sarei riuscita a scrivere questo articolo.

A.C.
*Professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze delle Produzioni Agroalimentari dell’Università degli Studi di Firenze e Presidente del Distret to Rurale Vivaistico Ornamentale della Provincia di Pistoia
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