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Architettura,  Design,  Interviste

Virginia Lorello: il mestiere dell’architetto.

a cura di Annamaria Cassani

“Ogni progetto è unico: risponde alle necessità e ai problemi nel miglior modo possibile”. V.L.

Confesso che contattare Virginia Lorello per un’intervista è stato, per me, un azzardo. Avevo già avuto occasione di04. FOTO PERSONALE

parlare di alcuni suoi progetti di architettura d’interni, ma questa volta desideravo approfondire il suo lavoro con domande più mirate. Tuttavia, durante la consueta ricerca preliminare di notizie nel web, mi sono resa conto che avrei potuto risolvere l’articolo semplicemente segnalando un paio di link.

Non perché, all’improvviso, mi sia lasciata prendere da un insolito slancio di anticonformismo (da tempo estinto in modo naturale), ma perché l’architetto Lorello non ha bisogno di essere raccontata da nessun altro: lo sa fare perfettamente da sola.

I suoi testi, pubblicati sul sito personale e sul profilo Instagram, sono caratterizzati da una piacevole impronta pedagogica e racchiudono l’essenza del suo lavoro: il metodo, le preferenze, i viaggi, le letture, i consigli, le ispirazioni che guidano la sua visione, e persino i timori che l’accompagnano.

Ogni possibile domanda sembrava già trovare risposta nei suoi racconti, generosamente messi a disposizione di chiunque desideri conoscerla più a fondo.

Beh…, quasi ogni domanda !

Annamaria Cassani
Dopo la laurea magistrale in architettura conseguita nel 2013 presso L’Università degli Studi di Palermo ed un paio di stage presso studi palermitani fai un salto di 2400 km per un ulteriore stage presso lo studio olandese UArchitects. Com’è nata l’occasione per questa collaborazione?  Hai trovato differenze di approcci alla progettazione rispetto al contesto italiano?

Virginia Lorello
Desideravo da tempo intraprendere un’esperienza di stage all’estero per ampliare le mie competenze professionali: ho cercato programmi europei che mi offrissero un percorso strutturato come un tutoraggio e mi sono imbattuta nel programma “Erasmus for young entrepreneurs”, un’iniziativa particolarmente innovativa, pensata per sostenere i giovani laureati nel percorso verso l’imprenditorialità. Nella mia candidatura, ho esplicitato l’interesse a diventare libera professionista – una direzione verso cui ero già fortemente orientata – e l’obiettivo di acquisire le competenze necessarie per la gestione di uno studio d’architettura.

Nutrendo una profonda ammirazione per l’architettura olandese, ho proposto, tra le opzioni disponibili, i Paesi Bassi e ho ottenuto l’approvazione dello studio UArchitects di Eindhoven che aveva valutato positivamente il mio curriculum.

Durante il periodo di formazione in Olanda ho notato significative differenze metodologiche rispetto all’orientamento italiano. In particolare, ho constatato una forte attenzione all’aspetto estetico, non solo nella resa degli elaborati progettuali, ma anche nella gestione dell’immagine professionale e nella comunicazione verso il pubblico. Tuttavia, a livello progettuale, l’approccio è decisamente pragmatico: se una soluzione risulta funzionale ed esprime l’estetica voluta, viene sviluppata senza necessariamente aderire a principi teorici.

In questo ambiente ho avuto l’opportunità di contribuire con un approccio più “umanistico “, orientato all’ analisi delle specificità degli spazi: per il progetto di rivalutazione del sito UNESCO di Kinderdijk, famoso per i suoi storici mulini a vento, sono stata ritenuta dalla dirigenza dello Studio la figura più idonea per condurre un’analisi del luogo, grazie alla mia sensibilità per gli aspetti storico-culturali del paesaggio, retaggio della mia formazione accademica italiana.

A.C.
In un post del 2020 pubblicato sul tuo profilo Instagram, scrivi di essere “super elettrizzata” per la messa in produzione della cucina “Dandy Plus” firmata da Fabio Novembre per Scavolini, un progetto cui avevi collaborato qualche anno prima. Ci descrivi l’ambiente che hai trovato nello studio del noto architetto e designer?

V.L.

Lo Studio di Fabio Novembre ha un orientamento progettuale che punta fortemente – per citare il visual designer Riccardo Falcinelli – sul “colpo d’occhio”, sull’impatto immediato, sull’idea centrale e coinvolgente capace di colpire l’osservatore in modo diretto.

Si privilegia una forza espressiva che mira a trasmettere l’idea con intensità, senza soffermarsi in modo maniacale sui dettagli, come farebbero magari altri Studi con un approccio più analitico e orientato alla ricerca della perfezione nei particolari: qui l’attenzione si concentra sulla potenza dell’idea stessa.

Nello Studio si svolge, inoltre, un’intensa attività di ricerca che abbraccia discipline quali il marketing e la sociologia, e si esercita un costante monitoraggio dei cambiamenti che avvengono nella società, dalle nuove modalità di consumo alle tendenze emergenti, con uno sguardo proiettato in avanti per anticipare il futuro.

A.C.
L’architetto Alessandro Scandurra, con il quale hai collaborato, nel recente libro “Casa Rebus” scritto a 4 mani con Giordana Ferri, a proposito della casa comune afferma “Promotori immobiliari e residenti sono spesso irremovibili nel preservare gli elementi che la definiscono, anche se alcuni di questi sono del tutto superati e arbitrari”. Sei d’accordo su quanto espresso? Secondo la tua esperienza, quali sono -se ci sono- gli elementi del “sistema abitativo” su cui tutti gli operatori di settore dovrebbero riflettere per esprimere proposte di cambiamento?

V.L.
Ho anch’io constatato una certa resistenza al cambiamento nei modelli abitativi contemporanei: non di rado mi capita di lavorare con clienti che devono rivedere progetti di case in costruzione il cui disegno planimetrico sembra ricalcato su tipologie dei primi decenni del secolo scorso, e non mi sto riferendo certamente a quelle proposte da Le Corbusier!

Sarebbe interessante ed auspicabile, invece, influenzare il cambiamento anche con un altro tipo di approccio, che non potrà essere unicamente a carico del singolo: mi riferisco alla progettazione di sistemi per una gestione collettiva del riciclo dei rifiuti che produciamo, un’opportunità   concreta per influenzare positivamente il sistema dell’abitare, rendendolo più sostenibile e in sintonia con le esigenze ambientali attuali.

Implementare soluzioni di riciclo delle acque grigie, ad esempio, consentirebbe di riutilizzare parte dell’acqua per usi non potabili, riducendo significativamente il consumo idrico complessivo. Un edificio che integri sistemi per il compostaggio interno e per la separazione e gestione dei rifiuti permetterebbe inoltre una gestione più efficiente delle risorse. Questi edifici potrebbero diventare veri e propri modelli residenziali ed influenzare positivamente  stile di vita di chi vi abita.

A.C
In un’intervista pubblicata sul sito aziendale di COSENTINO citi l’architetto Maria Giuseppina Grasso Cannizzo come tuo principale modello di riferimento per l’interior design. Che cosa ti affascina di questa progettista siciliana che, pur avendo ricevuto numerosi riconoscimenti per la sua attività, ha sempre voluto rimanere lontana dai riflettori?

V.L.
Ho seguito il laboratorio dell’architetto Maria Giuseppina Grasso Cannizzo durante il mio corso di laurea, e sono rimasta profondamente colpita dal suo approccio alla progettazione architettonica, tanto da ripromettermi di farlo mio. Ci sono molteplici motivi per ammirare il suo lavoro, ma il primo fra tutti è la straordinaria capacità di questa illustre donna siciliana di realizzare architetture di grande impatto anche in progetti di piccola entità. Questa abilità scardina i preconcetti formali, riuscendo a sorprendere attraverso una ridefinizione dell’abitare che è sia intelligente che di elevata qualità estetica.

Inoltre, ammiro l’applicazione rigorosa di un metodo personale che mi piace definire “artigianale”, inteso come l’esercizio costante di un attento controllo su ogni fase del processo progettuale, dalla concezione iniziale alla realizzazione finale, dal concepimento dell’dea “forte” al controllo dei dettagli esecutivi, senza cedere alla tentazione di delegare, più del necessario, ai collaboratori.

Ho seguito con interesse le sue conferenze e letto le sue pubblicazioni, trovando in esse una continua fonte di ispirazione e un modello da seguire nel mio percorso professionale.

A.C.
Io ravviso nei tuoi interni un’appagante “pulizia” di disegno, una semplicità che non è minimalismo ma rappresenta, per dirla alla Brancusi, “una complessità risolta”. L’utilizzo del legno, del bianco e dei colori chiari hanno sempre rappresentato, come tu stessa hai scritto, la “tua comfort zone”. Con l’ultimo lavoro che hai pubblicato, in cui hai osato molto di più anche in termini di accostamenti cromatici (nero e arancione), ti è venutala voglia di esplorare più spesso sentieri mai percorsi?

V.L.
In generale mi piace sempre sperimentare a livello progettuale e, tuttavia, la mia “zona di comfort” mi riporta spesso all’uso del legno chiaro e di una tavolozza in cui predominano il bianco e i colori pastello.

Mi lascio ispirare profondamente dai clienti, permettendo che il loro senso estetico e la loro personalità — da me rivisitati e reinterpretati — prendano forma. Se, per alcuni, l’utilizzo del colore non risulta efficace, al punto da preferire una palette completamente neutra, rispetto pienamente la loro inclinazione. Ho adottato il medesimo approccio per i clienti del loft cui accenni nella domanda: il loro temperamento ha dato vita a un progetto dal carattere deciso, per il quale non è stato necessario alcun intervento di “smorzatura”.

Quest’ultima realizzazione mi ha trasmesso maggiore sicurezza: ciò che, come progettista, credevo non rientrasse nelle mie corde si è rivelato alla mia portata. Ho constatato che posso ottenere ottimi risultati indipendentemente dallo stile scelto: la chiave è progettare con cura e metodo, gli strumenti sono sempre gli stessi.

A.C.
Nel descrivere il concept di “LIBERA. LA CUCINA ADATTABILE”, sotteso alla tua proposta per un concorso di idee, ad un certo punto della tua analisi critica rispetto la produzione di cucine pensate per chi si deve muovere su sedia a rotelle, scrivi “Nella maggior parte dei casi il disegno è molto lontano dal concetto di bellezza e lusso […]”. Il designer di fama internazionale KARIM RASHID nel cercare di ridefinire la nozione tradizionale di lusso parla anche di “democraticità”: “il lusso dovrebbe essere accessibile a tutti, indipendentemente dallo status sociale o dal reddito”

Commentiamo?

V.L.
Il design industriale è il mezzo più efficace per concretizzare il concetto di democraticità, poiché riesce a rendere il “bello” accessibile in maniera diretta e diffusa. L’architettura, pur cercando di perseguire questo obiettivo attraverso masterplan e piani urbanistici, resta spesso confinata a interventi limitati che non riescono a raggiungere tutti coloro che vorrebbero trarne beneficio.

Anche se non tutti comprendono appieno il valore di un prodotto cosiddetto “di design”, esiste una percezione istintiva del bello e della presenza di designer talentuosi alle spalle di alcuni oggetti, perché altrimenti non si spiegherebbe come, a parità di costi dei prodotti, alcune catene della grande distribuzione siano molto più frequentate di altre.

Credo veramente che questa capacità di percepire la qualità sia innata. Come evidenziava Bruno Munari, esistono numerosi oggetti di design anonimo che sono diventati parte integrante delle nostre case, mantenendo la loro forma e funzione per decenni. A questi oggetti non è associato il nome di alcun designer perché al momento della loro creazione la firma non era rilevante, ma ciò non ha impedito loro di avere successo. Un esempio emblematico è la sedia Acapulco: un pezzo di “design anonimo”, progettato in Messico intorno agli anni ’50, diventato una vera e propria icona, prodotta e imitatissima ancora oggi.

Ovviamente non ritengo che il design democratico debba essere necessariamente privo di firma ma, al contrario, penso che sia auspicabile che i designer collaborino anche con le catene della grande distribuzione per portare prodotti di qualità a un pubblico più vasto:

il vero lusso, per me, è possedere oggetti che combinino bellezza, funzionalità e durabilità.

A.C.
Ambizione di ogni architetto e designer è che i progetti non si esauriscano nel proprio tempo storico. Fai fatica a non farti sedurre dalle mode? Hai mai accettato compromessi in questo senso?

V.L.
Resistere al fascino delle mode è un impegno costante: ogni periodo porta con sé nuove tendenze, stimoli visivi e concettuali che difficilmente lasciano indifferenti gli architetti che, per natura e formazione, devono essere aperti alle novità. Il mio obiettivo è sempre stato, tuttavia, quello di progettare spazi che possano resistere alla prova del tempo. Pensiamo, ad esempio, a “Casa Lana” di Ettore Sottsass: ricostruita negli spazi della Triennale di Milano, ci appare ancora oggi di una straordinaria contemporaneità nonostante sia stata progettata negli anni Sessanta del secolo scorso.

Penso che l’architetto debba possedere una sorta di radar interno che lo allontani dall’utilizzo di materiali e forme la cui diffusione estrema, e in qualsiasi contesto, possa vanificare la possibilità di caratterizzare lo spazio in modo unico, lontano dai trend passeggeri.

Quando trovo di fronte a una novità, mi chiedo sempre: ne ho veramente bisogno? Mi piace davvero? L’avrei scelto comunque anche senza la sua attuale popolarità? Sono domande fondamentali per non farsi trascinare dalla moda e per restare fedeli a una visione originale.

Queste riflessioni possono portare, a volte, ad anticipare tendenze che esplodono solo più tardi. In un progetto di qualche anno fa, ad esempio, ricordo di aver fatto molta fatica per convincere i miei Clienti ad accettare l’uso dell’ottone in alcuni dettagli, un materiale che avevo visto proporre nello studio dell’architetto Scandurra, in tempi ancora “non sospetti”, prima del suo revival ufficiale.

A.C.
Invidio i testi che pubblichi sul tuo sito web: con molta razionalità ed un linguaggio alla portata di tutti riesci ad esporre concetti, prassi, metodologie che fanno certamente parte del bagaglio del progettista ma che spesso vengono volutamente celati, come se fossero segreti del mestiere. Cosa spinge te, invece, a renderli pubblici? Da dove nasce questa vocazione, mi verrebbe da dire, “pedagogica”?

V.L.
È una domanda interessante, perché questa inclinazione mi accompagna fin dai tempi dell’università: la stesura dell’abstract che accompagnava i progetti, ad esempio, mi risultava particolarmente semplice, a differenza di molti  miei compagni che riuscivano a stento a mettere insieme poche righe, quasi avessero delle remore nell’esternare e condividere il metodo che li ha guidati nel progetto o altri contenuti  altrettanto personali.

All’epoca non avevo individuato un motivo preciso per spiegare questa mia propensione, ma con il tempo ho elaborato alcune risposte. Oggi, posso dire che i miei testi mirano ad aumentare la consapevolezza dei clienti: un cliente che comprende il processo progettuale partecipa attivamente alla creazione, è maggiormente predisposto ad apprezzare le proposte e “cresce” insieme a me durante lo sviluppo del progetto, facilitando il lavoro e rendendo l’intero percorso più efficace.

Credo che questa spinta alla condivisione sia legata a valori profondi, radicati nelle convinzioni personali che, tuttavia, non sono ancora riuscita a definire compiutamente. Probabilmente ha giocato un ruolo importante anche il mio amore per la scrittura, maturato durante gli anni del liceo classico.

A.C.
In un post sul tuo profilo Instagram scrivi: “Il cantiere ti mette in moto la testa”. Che rapporto hai con le maestranze che realizzano i tuoi progetti? Hai qualche aneddoto, più o meno simpatico, che puoi raccontarci in merito?

V.L.
Nel corso delle mie collaborazioni ho constatato che l’approccio al cantiere è molto personale. Durante gli stage negli studi palermitani e anche nel corso della collaborazione con lo studio di Fabio Novembre mi si consigliava di adottare un atteggiamento autoritario.

Tuttavia, ho sempre preferito adottare un metodo orientato alla collaborazione perché credo nel valore della cooperazione con le maestranze.

È molto importante trovare un equilibrio – che per me significa mantenere buoni rapporti senza scivolare nell’eccessiva familiarità – per formare una squadra affiatata che riunisce professionisti aventi il medesimo obiettivo: la realizzazione del progetto.

A proposito di aneddoti poco piacevoli, è accaduto che, dopo aver dedicato intere giornate a riflettere sui dettagli per la posa di un rivestimento, una maestranza di cantiere esprimesse un’opinione diversa, non richiesta, al cliente, sul quale avevo lavorato duramente per fargli superare i preconcetti e convincerlo del valore di una scelta specifica. Non temo le idee altrui, ma ritengo importante proteggere il rapporto di fiducia che si deve creare tra architetto e cliente da possibili incrinature derivanti da suggerimenti estemporanei.

A.C.
A volte penso che nell’attuale situazione mondiale, più unica che rara, il design, inteso nella sua più vasta accezione, abbia una duplice valenza: da un lato un formidabile strumento di distrazione di massa – usato come leva per promuovere beni superflui o estetiche temporanee, distogliendo l’attenzione dai veri problemi – e dall’altro un altrettanto formidabile strumento per proporre soluzioni (parziali) ai problemi globali.

Qual è la tua opinione?

V.L.
Innanzitutto io sono un’inguaribile ottimista e la mia visione del futuro è allineata col pensiero di Alessandro Baricco che nel suo saggio “I barbari” descrive una società caratterizzata da una nuova barbarie, che, tuttavia, non si caratterizza per effetti di tipo distruttivo ma segna l’ingresso in un’epoca in cui forma e contenuti della cultura mutano rapidamente, senza essere necessariamente meno validi o intelligenti.

All’interno di questo sistema io non trovo nulla di negativo nel voler circondarsi di oggetti belli, funzionali, ben progettati, che appagano le persone anche semplicemente attraverso una contemplazione di tipo estetico. Cosa c’è di male nel ricercare quella “coccola” in più che un oggetto di design può regalarci? E qui voglio citare nuovamente Riccardo Falcinelli che nel suo saggio “Figure” vede la contemplazione estetica come un elemento fondamentale della nostra esperienza quotidiana, capace di offrire un senso di spiritualità anche a chi non sia credente in senso tradizionale.

Ovviamente, sono anch’io critica verso il consumismo e la cultura dell’accumulo. Credo fermamente nella necessità di ridurre gli sprechi e di comprare solo ciò che è davvero utile.

Il design, in questo senso, dovrebbe non solo cercare la bellezza e la funzionalità, ma anche promuovere un uso accorto delle risorse.


Anna

a cura di
Annamaria Cassani

ospite: 
Lorello Virginia architetto
Giardini La Viridiana
V. delle Forze Armate 260
20152 Milano
mon. (+39) 335 147 0597
info@virginialorello.it

immagini
Costantino Bedin, Lorello Virginia

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