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Architettura,  Paesaggistica

I luoghi comuni del verde

a cura di Alessandra Corradini

Potremmo divertirci con la natura e non lo sappiamo

Primo giorno di corso di specializzazione a Vertemate, alla Fondazione Minoprio: dopo anni trascorsi al Politecnico di Milano, mi pare di stare nella scuola più bella del mondo e c’è del vero. Le aule di villa Raimondi affacciano su un giardino romantico con piante secolari, a curarlo i ragazzi che studiano da giardinieri (e che giardinieri).

In aula entra il nostro primo insegnante, un giovane agronomo, che prima si presenta e poi ci dice: “Taglia che si rinforza è come la corazzata Potemkin”. Dietro alla risata generale, la consapevolezza che avremmo avuto due anni di corso per aprire la testa e per andare oltre i molti luoghi comuni sulla natura.

No, gli alberi non si rinforzano tagliandoli, anzi, si indeboliscono pericolosamente:

questo intendeva dirci il nostro insegnante. E, aggiungo io dopo anni di lavoro, i rimedi della nonna sono spesso peggiori dei problemi che dovrebbero risolvere.

In Italia di natura ci capiamo poco, sia perché la pratichiamo poco con le nostre mani, sia perché non abbiamo esempi e punti di riferimento.

Difficile credere che capitozzare una pianta sia una pratica pericolosa, quando il verde pubblico di paesi e città ci mostra continui capitozzi.

Difficile giudicare sconsiderata (e ormai dannosa per la nostra salute) la progettazione di parcheggi senza alberi, quando se ne trovano grandi chilometri quadrati in tutti i centri commerciali.

Ignoriamo le esigenze della natura, ecco perché siamo disposti a credere ai “si dice” e ai rimedi sgangherati che ci confortano e non mettono in discussione le nostre convinzioni e quelle delle generazioni precedenti.

Il nostro spirito critico è così lontano da quella che chiamerei realtà naturale da non vedere l’assurdità della mutilazione di queste cinque Forsizie.

Mutilazione che per noi è la normalità, visto che avviene di continuo nei parchi pubblici e, quindi, nei giardini privati.

Non esiste un motivo per ridurre così degli arbusti, perché se si scelgono Forsizie, allora si sa che occuperanno tanto spazio (che in questo caso, peraltro, non manca).

Se si scelgono Forsizie e si piantano vicine, allora quello che si vuole ottenere è una meravigliosa macchia, lasciata libera di crescere.

Confrontando le due foto, chi vorrebbe stare a guardare quei cinque moncherini e chi vorrebbe sedersi sulla panca?

Tagliare ossessivamente i molti arbusti che non hanno bisogno di potature drastiche è un malcostume, una dimostrazione di ignoranza e un inutile spreco di denaro; chi ha eseguito le potature va pagato, così come va pagata la discarica in cui verrà smaltito ciò che è stato tagliato.

E non è finita qui: le Forsizie mutilate sono più deboli, per cui si ammalano di più, hanno bisogno di trattamenti che inquinano e costano e chi li svolge va pagato.

Sotto la loro misera chioma non c’è ombra, per cui il suolo umido si surriscalda e l’acqua evapora: stiamo, quindi, contribuendo ad innalzare la temperatura di quello specifico microclima.

Prendiamo questa spalliera di Forsizie dove capita esattamente il contrario: le piante sono più forti, si ammalano meno, si impegna meno un giardiniere che farà un semplice lavoro di pulizia e, a basso costo, si predispone un habitat per molti insetti, piccoli mammiferi, rane, serpi, uccelli…

Devo parlare della bellezza e della sensazione di frescura?!

Il povero prato è vittima di un luogo comune granitico: lo consideriamo bello solo se è tagliato. Eppure ci sono tante situazioni in cui tagliare drasticamente e di continuo non conviene e non serve.

In questa foto, ad esempio, si rasa più di frequente il bordo del sentiero e meno il resto del prato.

Dove sono i benefici? 

Si lavora meno, si smaltisce meno, si hanno meno costi, si ha maggiore biodiversità che permette agli animali e agli insetti di avere un rifugio, si mantengono al suolo temperature più basse, perché l’evaporazione dell’acqua è minore, così come la necessità di bagnare.

Questo è un metodo di taglio che funziona benissimo in un grande parco pubblico, dove si potranno alternare prati rasati e fruibili a prati fioriti dall’aspetto più spontaneo.

Allo stesso modo si può fare in un giardino privato: dove ci sono zone non utilizzate, magari scoscese o poco fruibili, si prevedono meno tagli, mentre in prossimità della casa si tiene il prato ben rasato.

L’effetto finale, nei due casi, è sorprendente, perché ci sente immersi in una natura meno artefatta e in un paesaggio più naturale, ma sempre a misura d’uomo.

Su quelli che, per decenni, sono stati chiamati “prati all’inglese” dico solo che il loro nome già rimandava a una scopiazzatura britannica e, quindi, a una grande fatica italiana.

Ci siamo impegnati, infatti, a soddisfare la nostra esterofilia con ogni genere di diserbo e di concimazione, pur di avere un prato che non è mai appartenuto al nostro clima, al nostro paesaggio e alla nostra prestigiosa cultura paesaggistica.

Oggi, con queste temperature che ci obbligano a sperimentare nuovi miscugli resistenti, direi di archiviare il senso di inferiorità verso gli inglesi e di comprendere l’eleganza (tutta italiana e senza tempo) del ghiaietto, nei casi in cui anche il prato più robusto non ce la facesse.

In questo nostro Paese, più affine a chi lo ama e non ci vive che ai suoi residenti, la natura è un fatto di pulizia: a noi, in fondo, un arbusto mutilato che si staglia su un prato spelacchiato rassicura.

Ci sentiamo meglio, perché il verde che non “sporca” è quello che non sfugge al nostro controllo, anzi, è il risultato del nostro controllo.

Ci dimentichiamo, però, che il verde non sporca e non è mai sporco come può esserlo, invece, un prato sintetico.

Un rampicante che perde le foglie, ad esempio, ci sta semplicemente mostrando il ciclo naturale delle stagioni, lo stesso a cui noi non possiamo sottrarci e a cui ci conviene essere connessi.

In effetti temiamo ciò che non conosciamo; ecco perché preferiamo una misera pianta asetticamente sfigurata dalle nostre mani a un tripudio promiscuo di rami arcuati di cui non si percepisce l’esatto confine e sotto ai quali chissà chi si nasconde. 

Negli ultimi anni cadono parecchi alberi a causa della siccità sommata alle potature sciagurate. Siamo, insomma, pieni di tronchi da smaltire.

Ci sono aziende che riciclano il legno, rendendolo utilissima pacciamatura, oppure un valido aiuto per produrre il compost.

Per dare un senso allo strazio dei tanti alberi caduti o abbattuti per questioni di sicurezza, c’è anche un’altra soluzione molto semplice. Così semplice e piacevole alla vista che ci rende scettici.

In un parco, un tronco d’albero adagiato nel punto migliore di un grande prato a noi sembra una trascuratezza e una dimenticanza dei giardinieri comunali.

Una vera bellezza naturale a costo minimo, dunque, per noi è sporcizia che non è stata smaltita.

Un tronco d’albero che si decompone secondo i suoi tempi, in realtà, è un rifugio per uccelli, insetti e piccoli animali che possono bere l’acqua piovana raccolta nelle sue cavità.

Il legno marcescente, inoltre, produce humus prezioso per il suolo.

Chiudo dicendo che sui tronchi morti ci sono spesso le condizioni ideali perché nascano altre piante e lascio che ciascuno tragga le sue conclusioni, più o meno filosofiche.

Non credo ci sia una formula magica che faccia piazza pulita dei luoghi comuni, dei rimedi della nonna e delle abitudini consolidate.

Penso, però, che sia urgente dare fiducia ai professionisti della natura, riconoscendone il ruolo, senza pensare di poterne fare a meno o di sostituirci a loro.

Solo così potrebbe venirci voglia di giocare e di divertirci a fare giardinaggio in leggerezza, consapevoli che le difficoltà – quelle più grandi di noi – non sarebbero più affare nostro.


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Alessandra Corradini
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